Percorso

Il dono nel sangue. S'Impinnu (il voto)

Di Salvatore Pinna

''S'impinnu''1956, ultimi fuochi della guerra di Crimea prima dell’armistizio. Il soldato Antonio Manca di Nule, mentre intorno a lui piovono bombe, fa un voto a Sant’Antonio: se mi salvo, quando torno in paese farò fare la spianatina con il formaggio fuso (su casu furriadu chin su bussiottu)  da  regalare a tutti i bambini di Nule. Ritornato indenne a casa, e sciolto il voto, il rito si è ripetuto ogni anno, tramandato dagli eredi di Antonio.

Nel 2012 Cosimo Zene, antropologo nulese che lavora e vive a Londra, e il documentarista Ignazio Figus, girano S’impinnu (Il voto) un film sulla persistenza del rito nella comunità nulese e sulla particolare natura del dono che è, tra l’altro, oggetto di importanti studi da parte dello stesso Zene.

AntoniangelaSe questo è il contesto storico e antropologico, sul piano della resa drammatica e narrativa il film si regge sulla figura di Antoniangela, ottantaquattrenne pronipote dell’iniziatore de “s’impinnu”, e sua ultima erede. Elemento, questo, che conferisce un particolare pathos alla narrazione che si svolge all’insegna di un interrogativo sotteso ma il più delle volte esplicito: “E se muore Antoniangela?” Questo interrogativo fa da ambientazione affettiva alla preparazione delle varie fasi del rito nei primi tredici giorni di giugno,  durante i quali si fanno gli gnocchetti , le spianate, si confeziona la spianatina col formaggio fuso, che è la materia originaria del voto, e si riceve e si confeziona carne di pecora, offerta dai pastori, che verrà distribuita per il paese. In questi tredici giorni che il documentario racconta con completezza etnografica, gruppi di donne e di ragazze marciano per il paese con canestri coperti da panni bianchi,  bussano alle case dove consegnano il dono, ricevono un’offerta in denaro.

''S'impinnu'', le ripreseLe immagini di Figus documentano bene questo andare, trasformandolo in un leitmotiv visivo, perché è questo andare a caratterizzare questa forma particolare di dono che infatti viene chiamata “s’imbiattu”, cioè un invio, un transito che non riscuote utili che non siano  quelli della comunicazione tra persone di una comunità più o meno allargata e allargabile. È vero che le persone che “vanno” ricevono sempre un ritorno in denaro ma si tratta di un ritorno come contraccambio simbolico di una andata. Che “s’imbiattu” sia un concetto particolare di dono è mostrato con immediatezza visiva nell’episodio in cui due suonatori rumeni, che capitano nella casa di Antoniangela - che è il set del film, da cui tutto promana - ricevono il pane col formaggio acido e, però, appena fuori,  ricevono anche dei soldi da parte di alcuni pastori, che possono essere considerate offerte o il contraccambio della prestazione musicale. 

''S'impinnu'', le ripreseIl che sembrerebbe confermare quella predisposizione dei nulesi cui fa riferimento uno dei personaggi del film: «Il donare è nella nostra cultura, il piacere del dare ce l’abbiamo nel sangue».    Elemento questo che vien fuori quando il gruppo dei collaboratori di Antoniangela aprono il dibattito, in più tornate,  sulla prosecuzione del rito oltre la persistenza biologica dell’ultima erede del fondatore del voto.  Antoniangela è una persona difficile da sostituire. Della festa è leader carismatico, amministratore delegato, officiante delle preghiere e delle benedizioni. È  lei che stabilisce, nel rito religioso, il tempo di Dio  e quello legato alle incombenze dell’imbiattu.  Lei governa anche la memoria e nei suoi racconti c’è spesso il ricordo di fatti che ammoniscono che «con Sant’Antonio non ci si scherza». Il dibattito sulla presumibile scomparsa di Antoniangela si intreccia, rendendolo attuale, con quello sulle ragioni del rito, e quindi su quale base potrà poggiare la sua durata nel tempo.

''S'impinnu'', le ripresePerché a dire il vero sono molte le ragioni che vengono addotte dalle persone. C’è la speranza di una grazia, o la gratitudine per averla ricevuta,  ma c’è anche la soddisfazione di una dimensione comunitaria in tempi di egoismi e solitudini. Ci si domanda, anche, se i pastori  doneranno le pecore anche a chi succederà alla prioressa senza averne il suo prestigio. E se non basti, a un certo punto, il fatto stesso che una tradizione di 156 anni si regga per via della reputazione del Santo padovano, o in virtù del fatto che «La carne di Sant’Antonio, fa il brodo più saporito». Insomma siamo di fronte a un film vario e multiforme dove c’è la documentazione etnografica di un rito, i momenti specifici della preparazione dei prodotti, i modi diversi, da persona a persona, di raccontare la tradizione, di esprimere le opzioni e i punti di vista sul presente e sul futuro. Lo spettatore percepisce in pieno la suspense dell’incerta sorte di questa tradizione.

AntoniangelaIn questo film l’antropologo e il cineasta formano una combinazione particolarmente riuscita. Sul piano visivo Cosimo Zene ha una presenza ricorrente come personaggio tra gli altri. Ma si capisce che tutte le risposte sono dirette a lui, sia  che compaia come interlocutore, sia che scompaia come autore implicito delle domande. Il vedere etnografico di Ignazio Figus  gli dà la grazia di una presenza interna alle cose: e allora i soggetti dimenticano di essere davanti ad una macchina da presa. Non però come se il dispositivo fosse mosca sul muro. Ma nel modo in cui il moderno soggetto antropologico, ormai totalmente audiovisivo, sa mettersi in scena, consapevole di stare interpretando una parte per conto proprio. Il gesto rilassato eppure attento, ha consentito a Ignazio Figus di catturare aneddoti, abbozzi di storie, funzionali  alla vicenda principale. Come quando una ripresa ad altezza di suolo coglie un cane che osserva l’andare e venire delle auto fino a quando Antoniangela non darà anche a lui il suo “imbiattu”.

Sa cozzulaOppure, quando in un momento di particolare intensità emotiva nello spiazzo campestre, dove i paesani sono convenuti per la benedizione della statua di Sant’Antonio, la macchina da presa divaga su alcuni chierichetti che si arrampicano su un albero. È l’11 maggio 2013, un anno dopo la festa raccontata dal film. La cerimonia della benedizione è coronata da un saluto di Antoniangela. Sulla successiva dissolvenza in chiusura, una dedica ci informa che la prioressa è scomparsa nel settembre 2013. Il film, però, non è terminato. Prosegue con  un’intervista ad Antoniangela fatta il giorno stesso dell’inaugurazione della statua.  Filmicamente è come la sottolineatura di una presenza, e le sue parole sono, a un tempo, intensa memoria del voto antico, presentimento della morte e consegna segreta del mandato per la continuazione del rito dopo di lei. Forse la festa andrà avanti, meglio o peggio, un po’ più su o un po’ più giù, come intuisce un personaggio che partecipa al dibattito sul futuro de “s’impinnu”. Se andrà avanti sarà anche grazie a questo film che fissa in immagini un lascito impegnativo.

14 maggio 2014

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