Percorso

Il cinema racconta la Grande Guerra

La Grande Guerra cent’anni dopo. Le immagini e le ricostruzioni filmiche della tragedia analizzate in un volume di Giuseppe Ghigi: le ceneri del passato. di Gianni Olla

''Le ceneri del passato''Il cinema racconta la Grande Guerra”. Il sottotitolo di un recentissimo volume di Giuseppe Ghigi, critico e storico del cinema (e non solo del cinema, come si può capire anche da questo libro), dal titolo intrigante, Le Ceneri del passato (Rubettino, pagg. 262), consente di mettere il lettore, e anche chi scrive,  a confronto con un evento storico, culturale e mediatico che spesso si ritiene totalmente consegnato al passato.

Appunto alle ceneri in cui avrebbero potuto trovarsi anche le immagini dell’immane conflitto bellico che insanguinò l’Europa e, in misura minore, il Medio Oriente e l’Asia, per quattro lunghissimi anni: dal 1914 al 1918.

Le ragioni di questo “oscuramento” sono ad un tempo storico-politiche – è difficile per qualunque paese europeo rievocare quegli anni utilizzando i concetti nazionalisti che hanno dominato, per più di cinquant’anni, soprattutto le rituali celebrazioni della vittoria – e, appunto, mediatiche. Ci sono più familiari, e non solo per ragioni di minore distanza temporale, le immagini fotografiche e filmiche della seconda guerra mondiale. Questa, non solo ha istituzionalizzato l’uso propagandistico del cinema (l’esempio più convincente riguarda i maggiori registi hollywoodiani, da Ford a Huston, inviati al fronte con la cinepresa dai comandi militari statunitensi), ma si è presentata, da subito, come un evento tecnologico che riempiva gli schermi di grandi e tragici spettacoli: i bombardamenti a tappeto sulla popolazione civile, i cieli coperti di aeroplani, le grandi portaerei, le avanzate dei carri armati, le città della morte tecnologica inventate dai nazisti, la bomba atomica.

''Charlot soldato''Invece, il libro di Giuseppe Ghigi si apre con due “grandi illusioni” (per riprendere il titolo di un celebre film di Jean Renoir, dedicato appunto alla prima guerra mondiale) che appunto non possono che appartenere ad un passato che si tende a dimenticare. La prima è la foto della tomba di un soldato ungherese morto sul fronte italiano nel 1918: si chiamava Peter Pan, proprio come il personaggio del romanzo favolistico di Matthew Barry, amatissimo dai bambini che poi si troveranno a morire, come sognava l’eroe del romanzo, in una meravigliosa  avventura. La conferma dell’illusione sta nel secondo capitolo (“Ebbri di rose e miopi”), dedicato all’entusiasmo iniziale dei giovani coscritti, spesso volontari, poco più che ragazzi, che, prima e dopo l’inizio delle ostilità, sfilavano nelle principali capitali europee, fieri di poter affrontare quella che consideravano, appunto, un’avventura o peggio una gita da “boy-scout”.

Questo fenomeno, ripreso dai cinegiornali in chiave propagandistica, transitò naturalmente nel cinema di finzione, assieme all’altro rito propagandistico: la campagna di arruolamento, sintetizzata dal celebre manifesto in cui si indica la necessità di servire la patria (I want you) in tutte le lingue usate nel conflitto. Ovviamente, fin che dura la guerra, sia la documentazione bellica, sia la drammatizzazione filmica sono rigidamente controllate dalla censura e, soprattutto, la finzione scenica è costruita secondo principi iconografici che si rifanno alla “bella morte” del tardo romanticismo, molto distante dalla guerra di trincea e dai paesaggi desolati e desertificati, tipici dei campi di battaglia della Marna e di Verdun. C’è comunque anche un dato tecnologico che impedisce la documentazione: la pesantezza e la scarsa mobilità delle macchine da presa. A questa limitazione, che impedisce ogni realismo, si aggiunge, appunto nelle finzioni, il retaggio di un concezione cavalleresca che, fallimentare nella vera guerra, non più combattuta con le cariche di cavalleria, rimarrà ben solida nelle ricostruzioni filmiche. Insomma, la battaglia non si vede come “documento” ed è quasi metonimica – almeno fino agli anni Trenta – nella finzione, in cui, però compaiono le lontane stanze dei comandi isolate dalle trincee e al sicuro da possibili pericoli.

''Cuori del mondo''Persino Griffith, unico regista americano ad aver attraversato l’oceano, nel 1917, al seguito delle truppe statunitensi, per girare gli esterni di Cuori del mondo, costruisce il suo film, commissionato dal Ministero della guerra britannico, su una storia d’amore che ricorda i conflitti melodrammatici della Guerra di Secessione già visti in Nascita di una nazione. Al contrario, Charlie Chaplin, cittadino britannico, arruolatosi volontariamente nella propaganda bellica americana, girerà “Charlot soldato” (1918), un capolavoro comico – l’eroe cattura nientemeno che il Kaiser, ponendo fine alla guerra – ma anche tragico, visto che mostra la vita di trincea esasperando, con invenzioni surreali e grottesche, la sofferenza dei combattenti e il senso di disperazione di quella vita claustrofobica.
Ma, a partire dai primi anni Venti, ha inizio la lunghissima elaborazione del lutto, costruita principalmente sui monumenti nazionali al “Milite ignoto” o sui cippi funerari che, in tutti i paesi, elencano i nomi e i cognomi dei caduti appartenenti alle singole comunità, ripristinando, in tal modo, il bisogno di personalizzare l’immancabile eroismo.

''J'accuse''Ma il primo passo verso questa quaresima sociale sembra essere però un incubo visivo in forma di “memento”: i  milioni di cadaveri noti e ignoti, i cui scheletri escono dalle tombe per impedire di si dimentichi ciò che è accaduto. Ad esempio, il francese Abel Gance, nel suo J'accuse (1919) tradotto in Italia con il titolo Per la patria, mette in scena la storia di un soldato che tornato dal fronte racconta ai suoi amici di uno strano sogno che aveva fatto qualche tempo prima: i soldati morti erano usciti dalle loro tombe ed erano tornati alle loro case per vedere cosa era cambiato e per raccontare le atrocità della guerra. Una simile allegoria turbativa, legata ai fantasmi espressionisti e ai medievali “trionfi della morte”, è presente in altri titoli, tra i quali un film italiano del 1922, Umanità, girato da una donna, Elvira Giallanella, che racconta il sogno angosciante di un bambino: un mondo spettrale devastato da una terribile guerra, provocata dalle pulsioni distruttive degli uomini, appunto trasformati in fantasmi.

''Umanità''Progressivamente, i film, attestandosi come sottogenere drammatico, e forse influenzati proprio dal modello griffithiano, costruiscono vicende di formazione abbastanza archetipiche: inizialmente, come si è già scritto, ci sono le manifestazioni di piazza a favore della guerra, quindi il professore di liceo patriottico che incita i suoi allievi al giusto sacrificio patriottico, ed infine le immagini della trincea fangosa, degli assalti, e dei cumuli di cadaveri nella “terra di nessuno”.
Due celebri film, entrambi dei primi anni Trenta, rappresentano egregiamente questo contrasto tra l’illusione e la tragedia: All’ovest niente di nuovo di Lewis Milestone (1930), tratto dal romanzo autobiografico di Remarque Niente di nuovo sul fronte occidentale, e West Front di Pabst (1931), anch’esso tratto dal romanzo di un reduce (Quarto fanteria) di Ernst Johannsen.

''All'ovest nulla di nuovo''È superfluo osservare che, in Germania e in Italia, i due titoli furono ritirati dalla circolazione: i regimi nazisti e fascisti non potevano certo gradire lo scarso patriottismo di quelle opere letterarie e filmiche. Così come ebbe grandi difficoltà a circolare uno dei capolavori assoluti di Renoir, La grande illusione, girato nel 1937 e proiettato alla Mostra del cinema di Venezia, tra i mugugni di Mussolini e le minacce di Goebbels. Film senza una sola sequenza bellica, racconta appunto la doppia illusione di un’ultima guerra cavalleresca tra i “duellanti” francesi e tedeschi che si affrontavano nei cieli, e di quella contrapposta, fatta di solidarietà tra la gente comune (a cui appartengono, nella pellicola, il borghese Jean Gabin e l’ebreo Marcel Dalio) che si pensava avrebbe impedito nuovi massacri e nuovi feroci nazionalismi.

''La grande illusione''Altre variazioni sul tema furono ancora più radicali: l’autore del libro cita un film a noi sconosciuto, Barbed wire di Rowland Lee e Maurice Stiller, il cui titolo indica i reticolati, ma anche le barriere nazionali: è appunto, la protagonista francese, Mona, ama teneramente un soldato tedesco prigioniero e viene quasi assalita dai suoi concittadini. Un altro esempio viene da Ernst Lubitsch, autore, sempre nel 1932, di L’uomo che ho ucciso, storia di un reduce francese che decide di andare a trovare la famiglia di un soldato tedesco, da lui conosciuto prima della guerra e quindi ucciso nel corso di una battaglia. Un vero melodramma, con una sorta di sostituzione finale: è lui ad essere adottato come nuovo figlio. Va anche sottolineato che questo tentativo di “elaborare il lutto” assumendo come parametro la tragedia collettiva che non fa distinzioni nazionali, è in qual modo il sintomo di una paura che comincia a dilagare in Europa. Ci sarà un’altra guerra, chiedono i francesi, gli inglesi, gli italiani e persino i tedeschi?

''Settimo cielo''In ogni caso – sempre l’autore del libro a ricordarcelo – il clima è ben diverso da quello che si respirava durante il conflitto: ad esempio Eric Von Stroheim, interprete di Cuori del mondo, attore tedesco americano presente anche in altre produzioni sulla Grande guerra (tra le quali La grande illusione) dovette essere protetto, mentre girava il film di Griffith, dalla polizia francese.
E ancora, un altro dato interessante è che i personaggi della maggior parte dei film appartengono alla classe media. Poche sono le eccezioni: una di queste è Settimo cielo di Borzage, girato nel 1927, in cui il protagonista che parte per il fronte, è uno spazzino. Era certamente impossibile mostrare l’inesistente entusiasmo dei contadini, che furono statisticamente il ceto sociale più coinvolto nel conflitto e sempre in prima fila come “carne da mitraglia”. Forse il primo titolo che tratta questo problema – di sponda, facendo leva sul romanzo autobiografico di Emilio Lussu, Un anno sull’altipiano – è Uomini contro di Rosi, ma nel 1971, pur attraverso aspre polemiche, la Grande Guerra è già sulla strada della normalizzazione e, in Italia, è stata accettata anche la parodia (benché con finale eroico) di La Grande guerra di Monicelli (1959).

''Uomini contro''Altri due capitoli del volume di Ghigi aprono dei ponti verso la comprensione non solo dell’ideologia dell’epoca, ma anche del tessuto culturale che resterà impresso nei codici interpretativi del Novecento. Il primo, intitolato “L’ubiquità cubista”, è dedicato alle visioni dei campi di battaglia che transitano nell’arte figurativa, nella letteratura e nel cinema. Come raccontò già Stendhal nel capitolo su Waterloo di La Certosa di Parma,  la guerra non è raccontabile nella loro totalità, ma, per episodi, per corpi, dettagli dell’azione del paesaggio. Da questa visioni spezzate o distorte, annebbiate e oscurate, nascono molte suggestioni della “nuova oggettività”, comprese le visioni fantasmatico-espressioniste di Otto Dix e di George Grozs e la distruzione corporea del cubo-futurismo franco-russo-italiano.
Ma la stessa suggestione del frammento di realtà influenzerà anche l’importanza crescente del montaggio nella costruzione del racconto filmico, appunto “spezzettato” in singole azioni da comporre attraverso la cooperazione interpretativa degli spettatori.

La guerra come suggestione estetica avrà anche il suo controcanto nell’esaltazione di una prima grande potenza della tecnica. Ed è paradossale constatare che, in realtà, la tecnologia avrebbe contato molto anche in quel conflitto. Se ne accorsero, anche in questo caso, gli artisti, a partire dallo scrittore Ernst Junger che, nel suo Tempeste d’acciaio, autobiografico, racconta, con efficacia anti melodrammatica, oggettiva, una sorta di esaltazione (tossica) per il fascino della guerra, orrorifica e distruttiva, ma anche capace di temprare l’individuo più di ogni altra esperienza. E non fu un caso se lo scrittore, più volte decorato per le sue azioni, fu inizialmente tra i sostenitori della nuova “tempesta d’acciaio” hitleriana.

''Il grande dittatore''Il precedente entusiasmo positivista si trasformò insomma in macchina distruttiva: le corazze che compaiono proprio in Uomini contro, gli aeroplani, i treni blindati,  la Grande Berta tedesca (di nuovo raffigurata in maniera grottesca da Chaplin in “Il grande dittatore”), e i cannoni mostruosi che bombardarono Parigi, o anche per tornare allo sguardo degli scrittori, la citazione wagneriana de “Il Tempo ritrovato” – “Manca solo la cavalcata delle Walkirie” – che Marcel Proust utilizza per spettacolarizzare la Parigi notturna bombardata dagli Zeppelin.  Contiguo al tema della frantumazione e del rapporto uomo-macchina è anche il bel capitolo L’apocalisse del corpo, che riguarda la brutalità, non più mascherata, di una guerra che spesso si concludeva negli assalti con la baionette, e nei successivi ospedali da campo, pieni di ciechi, storpi e mutilati, sui quali si sperimentavano le avveniristiche protesi metalliche. Insomma, il primo esempio di cinema dell’orrore non ha nulla di fantastico, e proprio Ghigi ricorda che i generali raramente visitavano i feriti per non trovarsi di fronte ai soldati/uomini, non più anonima massa da mandare al macello.

''Orizzonti di gloria''Proprio questo aspetto di impersonalità della morte, dell’uccidere un “bersaglio” lontano sarà la caratteristica principale della guerra successiva, con i bombardamenti a tappeto sulle città.
Infine, il ruolo della donna, inquietante (le celebri spie come Mata Hari) e rassicurante (le crocerossine, ma anche le prostitute) è rimasto centrale nell’immaginario della Grande Guerra e inevitabilmente – come dice anche Truffaut – associata alla consolazione del “dopo la strage”.  È rimasto celebre, non a caso, il finale del film di Kubrick, Orizzonti di gloria (1957), in cui, dopo le stragi sui campi di battaglia e la paradossale decimazione per codardia dei sopravvissuti, i “morituri” attendono il nuovo assalto in un locale in cui si esibisce una cantante, capace di strappar loro delle lacrime di nostalgia.

 

Articoli correlati:

Metti una sera il Risorgimento

11 giugno 2014

Powered by CoalaWeb

Accesso utenti e associazioni