''Grand Budapest Hotel'' di Wes Anderson
di Clara Spada
La grande favola colorata del regista Wes Anderson ha fatto incetta di “statuette”: scenografia, trucco, colonna sonora, migliori costumi. Un bel bottino per un film che il pubblico ama o odia, a seconda che riesca a penetrare nel sogno facendolo suo.
Come scatole cinesi, questo film eccita l’immaginazione e fa viaggiare in anni non lontani, sbalzando da una atmosfera all’altra, semplicemente mutando usi e costumi. I riferimenti a fatti risalenti a scrittori anni ’30 come Stefan Zweig, a quadri secenteschi mai dipinti ed altri celebri più moderni, ai costumi che rubano i colori di Klimt, ma anche la tristezza sbiadita di paesi “dietro il muro” come la prima inquadratura, inframmezzati dalle casacche a righe del carcere, cupo ricordo dei campi di sterminio, trasportano lo spettatore in un viaggio fra le due guerre mondiali.
Come tanti flash, il ricco cast maschile richiama alla mente altri film, quasi un corollario al racconto principale: Amadeus, Il paziente inglese, Il pianista, Lezioni di piano… I colori e le luci dominano, rendendo splendenti i rossi e i dorati degli interni, quasi fumettistici i bianchi scenari innevati degli esterni, mentre le inquadrature a campo lungo trasformano il grandioso edificio del Grand Budapest in castello fatato. Le boiseries della sontuosa dimora di Madame D. rendono cupa l’atmosfera, come si conviene ad una morte sospetta e al folto gruppo di avidi eredi di grandi ricchezze. Una morte che è anche lo spartiacque fra il “prima” e il “dopo”, fra la bella vita e la miseria della guerra.
Il piccolo Zero Mustafa fa del suo concierge Monsier Gustave un eroe sublime. In effetti è a lui che deve la sua ascesa da lift-boy a ricco signore, proprietario dell’hotel e di tutti i beni ereditati da Madame D. Mentre racconta, romanzandola, la sua storia legata al Grand Budapest Hotel ormai decaduto, gli si illuminano gli occhi fino a velarsi di lacrime nel rimpianto e nel ricordo di Agatha, suo breve grande amore.
Una menzione particolare merita Milena Canonero: è suo l’Oscar per i migliori costumi, il quarto della sua brillante carriera iniziata con la bombetta e il bastone di “Arancia Meccanica” fino alla ardita presenza delle sneackers nel guardaroba di “Marie Antoinette”. Una signora speciale: avrebbe meritato una nomination anche per la sua sobria raffinata eleganza sfoggiata sul palco più ambito del mondo.
4 marzo 2015