Percorso

La nostra parte di cinema chiamata Vietnam

Rileggere la ''sporca guerra'' assieme a Giandomenico Curi, con film, documentari e testi dedicati. di Elisabetta Randaccio

VietnamIl 30 aprile 1975 è una data storica straordinaria: segna la fine del lungo conflitto in Vietnam e, dalla parte dei vittoriosi, stava il “piccolo popolo” del Sud, mentre l'esercito considerato più potente del mondo, quello degli USA, si ritirava sconfitto e umiliato.

Gli elicotteri che avevano per un decennio sorvolato le intricate foreste del Vietnam sganciando bombe, esfolianti, per individuare guerriglieri “invisibili”, in quel fine d'aprile non riuscivano a contenere lo sfollamento degli ultimi americani a Saigon, di colpo diventati da oggetti d'assalto a ingombranti veicoli inadeguati. Si apriva un momento di grande speranza per i popoli del sud est asiatico e una ferita profonda per gli Stati Uniti, destinati a riflettere sugli errori in politica estera e sulle spaccature interne, dopo anni di scontro sull'opportunità o meno di combattere la “sporca guerra”.

Cinematograficamente, il conflitto del Vietnam presenta elementi e variabili interessanti, anche perché si sovrappone a un momento di forte cambiamento nell'estetica e nei contenuti dell'arte filmica nei paesi non solo “occidentali”. E così, riflettere e ricordare quel momento temporale di forte mutamento e crescita storico-cinematografica è una proposta intelligente, che mette in campo spunti filmici, alcuni oscurati dalla labile memoria collettiva, altri che ci aiutano a capire l'evoluzione dei generi del grande schermo.

Un immagine simbolo del VietnamCi hanno provato dal 6 al 7 maggio la Società Umanitaria-Cineteca Sarda, l'Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio Democratico, il “Punto di vista 2015 Film Festival” e altri soggetti, i quali, per tre giorni, nei locali della Cineteca e al Teatro Adriano a Cagliari, hanno proposto proiezioni di documentari e di fiction sul tema, alcuni sicuramente poco noti, altri esemplari.

Parte di questa importante iniziativa è stata la presentazione del libro La nostra parte di cinema chiamata Vietnam (edizioni Effigi) di Giandomenico Curi, docente di Semiologia e Cinema degli Audiovisivi all'Università di Studi Roma Tre. Il libro è articolato in otto, densi capitoli, dove, come ha affermato l'autore, si intuisce quanto il Vietnam sia stato “un simbolo forte, che è poi diventato un vera e propria metafora linguistica, a indicare una sorta di trappola politica.

''Apocalypse now''E' evidente, inoltre, che quegli anni sono stati il periodo in cui si è affermato un nuovo modello di cinema, spesso legato al desiderio dell'impegno e della riflessione sociale”. Nel testo di Curi questo è esplicitato nel capitolo dedicato all'Italia, ai cineasti che si dedicarono a diffondere la controinformazione sull'argomento o a documentare manifestazioni e eventi a sostegno dei vietnamiti. Tra i lavori di Francesco Maselli o Giuseppe Ferrara, si segnalano, spesso, firme collettive e, con il senno di poi, attraverso queste opere, si può analizzare un periodo storico, dal punto di vista della passione, non solo civile, ma pure cinematografica, straordinario, certamente per la memoria di volti e progetti che sarebbero andati perduti, ma pure a dimostrazione di quanta forza si attribuiva al mezzo filmico.

''Apocalypse now''Peraltro, questi “documentari” analizzati nel testo sono, come ci racconta  Curi, “un piccolo tesoro dell'Archivio, che, peraltro, sul conflitto nel Vietnam possiede il maggior patrimonio audiovisivo in Europa, con opere ancora da sottotitolare e restaurare.” Giandomenico Curi, però, si sofferma anche su due pellicole fondamentali nella storia del cinema americano (Apocalypse now, 1980, di Francis Ford Coppola e Platoon, 1985, di Oliver Stone), il quale ha dovuto elaborare un lutto profondo prima di riuscire a dedicare tanti film alla ferita sanguinante del Vietnam. Negli anni del conflitto, infatti, a parte qualche mediocre lungometraggio di propaganda, i riferimenti al Vietnam erano indiretti; pensiamo, per esempio, alla strage presente nella parte finale di Soldato Blu (1970) di Ralph Nelson, dove gli orrori compiuti dai soldati dell'esercito americano nel villaggio pellerossa evocano senza filtri, quelli accaduti cento anni dopo. Curi ci racconta come anche Apocalypse now fu immaginata quando ancora si combatteva nel Sud Est asiatico. Era il 1969, la sceneggiatura di John Milius, ispirata a Cuore di tenebra di Joseph Conrad, sarebbe dovuta essere girata in 16 mm, nella giungla, in mezzo agli scontri bellici. Ma, come ci spiega Curi, “le major non ebbero nessun coraggio e il progetto fu respinto e ripreso solo anni dopo, quando la guerra era finita.

''Platoon''Platoon, invece, è nato per sanare quella tragica bipolarità di opinioni, la quale scosse gli USA per tanto tempo, anche dopo la sconfitta. Bisognava andare oltre lo spregio e il disprezzo per i reduci, capire, senza giustificare, le modalità del conflitto, il dolore di una generazione mandata a combattere tra le menzogne politiche. Il film di Stone ha segnato proprio questa riconciliazione non retorica, che piacque tantissimo agli ex soldati; d'altronde il regista di Platoon aveva raccontato la sua personale esperienza di ragazzo catapultato nell'inferno del Vietnam”. Nel suo libro, poi, Giandomenico Curi, dà rilevanza ai due straordinari making of di questa coppia di capolavori cinematografici, che aiutano ancora di più a capire il senso metaforico del conflitto vietnamita.

''Platoon''Il famoso Viaggio all'inferno, con immagini di Eleanor Coppola (la moglie del regista che scrisse pure un affascinante diario durante le riprese), firmato da Fax Bahr e George Hicklenooper è un capolavoro in cui i 280 giorni di riprese di Apocalypse now divengono un nuovo, parallelo “Vietnam”, dove si crea un film tra problemi organizzativi immensi, malattie, fatiche, assurde situazioni e in cui la vita e la carriera di Coppola muta dolorosamente. Revisiting Platoon di Charles Kyseliak e Jeff McQueen, invece, racconta come Stone fosse interessato a far capire anche ai suoi attori, in maniera iper realistica, in quale contesto estenuante dovessero agire i soldati americani. In questo senso, si servì di un ex consigliere militare il quale, nel film, afferma, riferendosi agli interpreti: “Li ho distrutti. Volevo farli diventare degli animali. Perché questo è quello che eravamo quando avevamo 19 anni nella giungla.”
Tante altre facce del conflitto del Vietnam sono esaminate nel libro di Curi.

''Tornando a casa''Per gli Stati Uniti, nel capitolo settimo, abbiamo sottolineati molti elementi originali, dall'analisi di Tornando a casa di Hal Ashby, il quale, all'epoca della sua uscita (1978) creò varie polemiche, all'analisi cruda che, all'interno del bellissimo Fog of war di Errol Morris, esplicita McNamara sulle verità e le menzogne di stato in quegli anni.
Da non dimenticare, poi, come il primo documentario girato, subito dopo la fine del conflitto, nel paese asiatico, avviato a un futuro di grandi contraddizioni, fu Vietnam scene di un dopoguerra girato nel 1975 dal nostro Ugo Gregoretti, il ritratto di un paese desideroso di ricostruzione e pace.

13 maggio 2015

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