Percorso

Arte e filosofia per ''capire il male''

Al Festival cagliaritano va in scena la guerra tra epica e moderne tragedie, l'ipocrisia dell'Occidente e la complessità del Mediterraneo. di Anna Brotzu

Festival della FilosofiaLe radici dell'odio e l'impronta di Caino: il Festival di Filosofia firmato Sardegna Teatro - dal 14 al 17 maggio a Cagliari – indaga fra mito e storia quell'incontenibile, puerile e disastrosa passione per i giochi di guerra che caratterizza il genere umano.

L'infinito fratricidio” - tema e titolo della kermesse – è al centro dei “dialoghi” tra studiosi, ma anche giornalisti e scrittori, testimoni del nostro tempo e fini indagatori delle dottrine del pensiero: tra i protagonisti Franco Cardini e Remo Bodei, a confronto rispettivamente con Roberta De Monticelli e Elisabetta Cattanei, Massimo Campanini e Wasim Dahmash, Simona Forti e Gabriella Baptist, Benedetta Tobagi e Paola Piras, Luca Foschi e Moni Ovadia. Un viaggio nel lato oscuro, tra gli effetti terribili di quel “sonno della ragione” che genera mostri – dal razzismo al genocidio, dai conflitti religiosi, o presunti tali, agli scontri fra civiltà – sul filo della memoria, per recuperare quel ruolo profetico dei poeti e degli sciamani, per far sì che la luce dell'intelligenza illumini il cammino della società verso la giustizia. La formula, d'ispirazione “platonica”, di affidare a due interlocutori l'approfondimento dei singoli argomenti, permette lo svilupparsi di una dialettica intorno al significato di termini chiave, come la “verità” e il “perdono”, la necessità di sapere e la scelta dell'oblio.

Incipit – in forma di fiaba – con l'immaginifico “Soglie” de Is Mascareddas, da “La via del pepe” di Massimo Carlotto: un racconto per burattini e voce narrante, “animato” da Tonino Murru sulle note di Mauro Palmas, per la regia di Marco Sanna, sull'avventura di un ragazzo partito dal cuore dell'Africa in cerca di miglior fortuna, tra simboli di un'antica saggezza e il fascino pericoloso di una morte (d'acqua) danzante. Un apologo sulle migrazioni – di ieri e di oggi – in cui i pregiudizi e la paure dell'Occidente si rivelano nella loro infondatezza, a fronte del dramma dei popoli in fuga da un destino di fame e carestia, violenze e persecuzioni, verso una vaga speranza di pace. E un percorso – fatto di letture e visioni “a tema” (con tre film “Hanna K”, “Il giardino dei limoni” e “5 Broken Cameras” sugli effetti del conflitto istraelo-palestinese) – per riflettere sulla ferocia e sulle antinomie della mente e del cuore umano, sul desiderio di vendetta e la sete di giustizia, i legami (di sangue) e il senso del sacrificio.

Festival della FilosofiaL'anteprima del Festival regala, attraverso le parole di Emma Jeblaoui, docente universitaria e parte del Comitato Consultivo dell'Istituto Arabo per i Diritti Umani (nella sala della Fondazione Banco di Sardegna) una fotografia della Tunisia odierna, all'indomani della “Rivoluzione dei Gelsomini”, nel lungo cammino verso la democrazia tra forze conservatrici e fondamentalismo salafita. Un incontro interessante – sia sul piano della documentata ricostruzione dei fatti, che della percezione degli eventi – che mette in evidenza le contraddizioni interne e le ingerenze esterne, il ruolo delle donne nella società e nella politica e la condizione femminile, il potere dei social network e la pervasività dei media – in particolare la televisione.

Sulla scena – al Teatro Massimo di Cagliari, che ospita tutti gli altri appuntamenti della kermesse – rivive invece la storia travagliata del Libano, con il debutto di “Incendi” di Wajdi Mouawad, nell'allestimento del Teatro Stabile della Sardegna (ora Sardegna Teatro) per la regia di Guido De Monticelli: la vita di Nawal, con i suoi segreti e i suoi silenzi, si rivela ai due figli con tutta la forza emblematica di una tragedia greca, in cui gli scontri tra popoli in nome della fede, le devastazioni della guerra, le violenze, le ingiustizie, lasciano un segno indelebile sulla coscienza di ciascuno dei protagonisti, chiamati infine a scegliere tra l'amore e l'odio.
Poi il Festival racconta la Nakba, la “catastrofe” dei palestinesi con un'intera giornata, il 15 maggio, fitta di testimonianze e letture, culminata con l'incontro tra lo storico Massimo Campanini e lo studioso di letteratura araba Wasim Dahmash: la storia e la geografia riscritte dai vincitori si scontrano con la verità dei popoli, una cultura millenaria non si cancella per decreto, e decine di migliaia di profughi sono il frutto malato del senso di colpa dell'Europa.

Festival della FilosofiaLa Palestina – per la sua sconvolgente attualità, lo stillicidio delle vittime, pur nel conto impari che sembra considerare diversamente il peso del dolore, l'importanza dei morti e feriti, travalicando perfino l'arcaica pretesa di una vita per una vita – rappresenta l'ospite (non sempre) silenzioso, la tragica incarnazione di quella strana “follia di ucciderci l'un l'altro” che non solo nella Sardegna mitica inventata da Sergio Atzeni caratterizza da tempo immemorabile l'umanità. L'enigma di come un intero popolo possa scomparire dalle mappe – e dalla coscienza degli evoluti europei – tanto da poter “regalare” quell'angolo di “deserto” come risarcimento (impossibile) per le vittime della Shoah (salvo nella cruda ironia di una profezia autorealizzantesi, come sottolinea la professoressa de Monticelli, della “terra senza popolo”) ha trovato nei secoli soluzioni e varianti, riconducibili al termine quasi impronunciabile di “genocidio”. La guerra interminabile che si consuma nello storico crocevia di culture e religioni, imprigionando e contrapponendo due popoli, ostaggio delle logiche del potere e semmai dell'esercizio della forza, è come una spina avvelenata nell'illusoria quiete tra gli echi di guerre lontane. Se lo storico può facilmente recuperare tra i documenti dell'epoca le ipotetiche cause dei conflitti del passato, anche recente, più arduo è il compito del “filosofo” chiamato a dare risposte sull'etica, a fronte dell'ossimoro di una ipotetica “guerra giusta”; fin dall'età più arcaica la tecnologia sembra progredire di pari passo e quasi in funzione dell'arte militare, come se nel Dna umano fosse impresso un gene che istiga alla battaglia.

Il Festival di Filosofia impone agli ospiti illustri, e al pubblico, una riflessione sui “mostri” e gli incubi scaturiti dal “sonno della ragione”, su quella tremenda verità insita nella “banalità del male”: tutti potremmo in determinate circostanze trasformarci in carnefici, o vittime. Tra gli alfieri del nazismo – e del fascismo – vi furono anche artisti, intellettuali, perfino filosofi; e razzismo e xenofobia si ripresentano quasi malattie endemiche nei diversi continenti.
La cognizione del male” su cui dialogano Simona Forti e Gabriella Baptist, assume una connotazione tragica nel confronto tra Benedetta Tobagi e Paola Piras: la giornalista e scrittrice, figlia di Walter Tobagi (assassinato dalle brigate rosse), è a sua volta vittima dell'indicibile, le sue parole - meditate – intorno alla necessità della memoria e l'elusività del perdono hanno la pregnanza di una testimonianza diretta, in cui le sfumature di significato e i campi semantici non sono astrazione ma esperienza concreta, cronaca di vita vissuta.

Festival della Filosofia, Moni OvadiaLa questione israelo-palestinese – e gli equilibri politici del Vicino Oriente – ritornano in primo piano nell'intervista di Luca Foschi a Moni Ovadia: un “ebreo antisemita” che ripudia la guerra e invoca la discussione come metodo pacifico di risoluzione dei conflitti, diventa una voce scomoda e fuori dal coro per chi preferisce ridurre lo scontro al piano ideologico, tacendo invece sull'uso delle armi e sui muri di questo “vergognoso apartheid”. Nella giornata conclusiva, spetta a uno storico brillante e controcorrente come Franco Cardini mettere l'accento sul vero dilemma etico della nostra epoca: l'autore de “L'ipocrisia dell'Occidente” sottolinea come la deliberata finzione dei ceti dirigenti, quel fraintendimento degli effetti e delle cause, coincida necessariamente con l'inconsapevolezza dei “governati”, in funzione di uno “scambio asimmetrico” in cui le potenze occidentali offrono cultura e ideali in cambio di materie prime e forza lavoro, in un'immagine del mondo da liberismo sfrenato. Nell'alternanza dialettica Roberta De Monticelli (ideatrice del Festival) si sofferma invece su Jeanne Hersch e il suo concetto di libertà, la cui essenza trascendente lega indissolubilmente la natura etica dell'uomo alla sua dinamica esistenziale – individuando nello spazio “vuoto” dedicato alla meditazione quel luogo interiore sottratto all'autorità dello stato.

Il dialogo finale tra Remo Bodei e Elisabetta Cattanei propone un curioso gioco di contrasti: se il professore della University of California insiste sulla guerra, analizzandone le nefaste conseguenze, quasi partendo dalla fine, con le onde di migranti che approdano sulle nostre coste, e il tema dell'esilio come condizione universale dell'uomo, la docente di filosofia antica si diverte a immaginare Aristotele alle prese con i consigli di lettura per il suo allievo più noto, il futuro Alessandro Magno, tra cui spiccano i poemi omerici, quasi ipotizzando che il maestro volesse somministrare una sorta di terapia contro l'alogon, l'indefinito e illogico, e l'impulso dell'ira. Si parla di tragedia e di poesia, di mimesi e catarsi, di Seneca e Nerone, di matematica e numeri interi, e in fondo del rapporto tra filosofi, matematici e poeti e la realtà, quasi a riaffermare come l'arte (insieme alla scienza) rappresenti l'unico strumento utile per raccontare, e conoscere il mondo, nel bene e nel male.
Infine – prima che cali il sipario – divampano ancora gli “Incendi” di Mouawad – in cui si riafferma, accanto alla rappresentazione dell'orrore, l'istanza di verità – e quindi la necessità della storia, ma anche di un'etica che restituisca un senso alla giustizia, per poter continuare a esistere.

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