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Memorie d'oltrecinema: ''Le petit soldat'' (1960) ''Les carabiniers'' (1963) di Jean Luc Godard

Gianni Olla ci apre la sua cineteca per riscoprire grandi film che riemergono dal passato

''Le petit soldat''Non c’è mai stato regista più amato, odiato, discusso, di Jean Luc Godard. E non c’è neanche mai stato un altro regista i cui film, in larga maggioranza, siano rimasti sostanzialmente “sconosciuti”, ovvero paradossalmente non visti. Questa considerazione vale in particolare per l’Italia, dove l’autore francese di origine svizzera ha avuto il suo momento di gloria e di idolatria critica, ma anche di impossibile imitazione linguistica, nei primi anni Sessanta.

Dopo il clamoroso  successo di À bout de soufflé/Fino all’ultimo respiro, il manifesto, assieme a I 400 colpi di Truffaut – a cui si deve anche il soggetto del film dell’amico – della nascente “nouvelle vague”, Bernardo Bertolucci, che era stato “allevato” come regista da Pier Paolo Pasolini, allora alle prese con la sacralità del sottoproletariato, divenne un godardiano di stretta osservanza (Prima della rivoluzione, Partner) e, sia pure con molte contraddizioni, lo rimase a lungo. La fama del regista contagiò anche alcuni produttori: difatti nel 1962, il regista girerà Il nuovo mondo, uno dei quattro episodi di RoGoPaG, prodotto dalla Pea di Alfredo Bini. Il film è rimasto celebre non già per il cortometraggio di Godard, che anticipa la tematica di uno dei suoi film più belli e ugualmente meno visti,  Agente Lemmy Caution, missione Alphaville (1965), ma piuttosto perché “contiene” uno delle opere più poetiche di Pasolini, La ricotta.

''Le petit soldat''L’anno successivo, Carlo Ponti gli propone di trasporre sullo schermo il romanzo di Moravia Il disprezzo. Godard accetta di lavorare in Italia, tra Roma e Capri, ma il film non piace al produttore che lo distribuisce con un taglio di quasi venti minuti, ripristinati solo recentemente nella versione in Dvd. E ancora, alla fine del decennio, le sceneggiature di cinque film del regista francese (Fino all’ultimo respiro, Questa è la mia vita, Una donna sposata, Due o tre cose che so di lei, La cinese) vengono pubblicate in una vecchia e gloriosa collana dell’Einaudi che comprendeva, non a caso, solo alcuni maestri del cinema di indubbia modernità linguistica e, paradossalmente, di prevalenza registica autoriale: oltre a Godard, Fellini, Bergman, Dreyer, Bunuel, Antonioni. Ci sarebbe magari da discutere sulle esclusioni, ma, in ogni caso, la scelta era conforme ai dettami delle “vagues” europee di quel tempo. Eppure, nonostante tanta ammirazione, non solo le distribuzioni di alcune pellicole godardiane del periodo sono state affrettate e dunque quasi inutili, ma alcuni tasselli importanti della sua filmografia iniziale – per chi scrive la migliore e mai eguagliata nelle successive “fasi” della sua etica e poetica – non hanno mai varcato i confini tra Francia e Italia.

''Le petit soldat''I due titoli che qui si propongono come degnissimi di una visione non distratta, sono appunto del 1960 (Le petit soldat) e del 1963 (Les carabiniers): il primo è stato ripescato nella versione originale e pubblicato in Dvd non più di qualche anno fa dalla Terminal Video; il secondo, egualmente inedito, è anch’esso reperibile in Dvd per Raro Video.
La datazione reale di Le petit soldat, che fu proiettato in Francia solo nel 1963, è già emblematica. Non furono le solite difficoltà produttive e distributive entro cui si districavano i giovani registi a ritardarne l’uscita nelle sale, ma piuttosto la censura, in questo caso direttamente politica. Difatti il film fu girato due anni prima dell’indipendenza algerina e affrontava indirettamente quegli anni  di feroci e sanguinosi scontri all’interno del paese transalpino che fecero presagire un colpo di stato da parte dei vertici militari, contrari all’abbandono del paese nord africano deciso dal presidente De Gaulle.

''Le petit soldat''Il Bruno Forestier di Le Petit soldat è appunto un fotoreporter fuggito dalla Francia perché non vuole combattere quella guerra, ma a Ginevra, città in cui si è rifugiato, è costretto – data la sua situazione di disertore che potrebbe essere rimpatriato coattivamente – a collaborare con l’OAS, l’organizzazione militare che sta seminando il terrore in Algeria e in Francia.  Lo vediamo, nelle prime immagini, fotografare per strada con una Rolleiflex (all’epoca la macchina dei fotoreporter) alla maniera di Robert Doisneau: una coppia che si bacia, un manifesto che invita all’amore universale. Lo scenario immaginario/pubblicitario si incarna, dopo queste prime sequenze di ambientazione, in una storia d’amore con una ragazza appena conosciuta e corteggiata quasi per una sfida all’amico che li ha fatti conoscere: è Anna Karina. L’anno successivo sarebbe diventata la moglie di Godard.

Il ribaltamento tematico avviene subito dopo: Bruno è un osservatore “osservato”: un altro fotografo lo prende di mira e gli consegna dei biglietti, in apparenza ricevute delle foto, che sono in realtà dei messaggi in codice dei suoi datori di lavoro. Il suo compito immediato è di uccidere un giornalista radiofonico che ha rapporti con la diplomazia algerina impegnata, in Svizzera come in altri paesi europei, a sostenere la causa dell’indipendenza. Bruno rifiuterebbe volentieri, visto che non ha mai ucciso, ma viene pesantemente ricattato, e successivamente, dopo il volontario fallimento dell’attentato, anche la compagna è coinvolta in quella cruenta guerra di spie.

''Le petit soldat''Le petit soldat, assieme al più celebre Muriel di Resnais (1963) e, di scorcio, a Adieu Philippine di Jacques Rozier (1962), appartiene dunque al ristrettissimo novero delle pellicole che hanno avuto il coraggio di affrontare, in quegli anni, un tabù nazionale e nazionalista come la guerra d’Algeria, vera e propria ferita nel cuore dell’opinione pubblica francese, di centro, di destra e di sinistra. Si ricorderà che il film di Pontecorvo La battaglia di Algeri – Leone d’oro a Venezia nel 1966 – non fu proiettato in Francia fino agli anni Settanta e fu sempre accompagnato dall’ostilità della stampa e della politica transalpina. Per chiudere la parentesi, si può persino supporre che il soggetto/trattamento iniziale di Franco Solinas sulla guerra algerina, Parà, scritto nel 1964 e basato sulle biografie di due ex militari francesi che tornano in Algeria, l’uno come cinico fotografo di guerra, l’altro come terrorista dell’OAS, sia stato influenzato proprio dal personaggio del film di Godard. È obbligatorio aggiungere che Le petit soldat è anche una sorta di preludio ai turbolenti anni Sessanta europei che annunciano la contestazione giovanile e il radicalismo rivoluzionario.

Godard rivendica apertamente questo suo ruolo sanamente provocatorio, affermando di aver “voluto combattere l’idea che la “nouvelle vague” mostrasse solamente gente a letto”. “Il film-testimonianza del periodo – è sempre Godard – non poteva non essere legato alla politica e la politica, in quel momento, era l’Algeria”.
Eppure, nonostante queste importanti dichiarazioni che anticipano di qualche anno ciò che la “vulgata” retrospettiva ha giustamente definito la rivolta delle giovani generazioni, il film non è molto diverso da Fino all’ultimo respiro. Nella prima pellicola, la derivazione di “genere” era basata sulla riscrittura – già inconsapevolmente “post-moderna” – del noir hollywoodiano, e spesso del Bmovie. In Le petit soldat, il modello è invece un altro sottogenere post bellico: il cinema nero-spionistico che ha nutrito, con le sue trame complesse e misteriose, il buio periodo del maccartismo, in cui appunto c’erano le ombre dei comunisti in agguato – mai definiti tali – ad ogni inquadratura di film come Le forze del male di Polonsky (1948) Mano pericolosa di Fuller (1953) e Un bacio e una pistola di Aldrich (1955). 

''Le petit soldat''Se il Michel/Lazlo del primo film riscriveva, parodiandolo – soprattutto sul piano linguistico, totalmente libero e continuamente sovra alimentato da virtuali monologhi esplicativi verso lo spettatore – il “loser” del cinema noir, il Bruno del secondo film arriva dal medesimo universo di “ribelli senza causa”, ma la sua dissociazione dagli eventi storici, a cui contrappone l’osservazione del mondo attraverso l’inquadratura (“la fotografia è la verità, e il cinema è la verità ventiquattro volte al secondo, pontifica lo stesso personaggio”, ovvero il regista che si sovrappone al suo eroe) fallisce di fronte alla crudeltà e all’inafferrabilità del reale.
Un’altro punto di congiunzione problematico tra i due film è l’idea mitologica legata alle grandi auto americane che percorrono i viali di Ginevra: il piacere dell’esibizione ribellistica, presente appunto anche in Fino all’ultimo respiro, viene però progressivamente sovrastato, in Le petit soldat, dalle auto europee, o meglio francesi che caratterizzano gli inseguimenti tra i “clan” spionistici rivali.

Infine, il suo secondo film è girato utilizzando la stessa caotica libertà della macchina da presa di A bout de soufflé. I movimenti veloci sfuocano, in una sorta di paradossale dissolvenza senza stacchi, ciò che sta in mezzo a due inquadrature; il montaggio è quasi strappato, le lunghe ellissi narrative lo rendono, a tratti, volutamente incomprensibile nella trama spionistica, quasi che il regista confessi la sua estraneità al conflitto, di fronte a tanta “banalità e crudeltà” del potere di ieri e di oggi.
Le petit soldat è in realtà una sorta di rivendicazione quasi anarchica, benché lucidissima, del bisogno di autonomia dell’intellettuale e dell’artista testimone del proprio tempo. Non a caso, il contraltare dialogico delle immagini contiene già quella disseminazione di cultura e arte nelle pieghe delle narrazione: la compagna di Bruno si chiama Veronica ma di cognome fa Dreyer; Bruno non sa decidersi se gli della ragazza siano di un grigio Velasquez o di un grigio Renoir; raccontando il proprio passato, ricorda che “mio padre fu fucilato dopo la liberazione, era amico di Drieu de La Rochelle”. Insomma una sorta di “impregnamento” letterario, storico, estetico, apparentemente extra diegetico, che anticipa un modello di drammaturgia visibilissimo in tutta la sua successiva carriera.

''Les carabiniers''Les carabiniers (1963), suo secondo titolo “politico”, è invece liberamente ispirato ad un testo teatrale dell’italiano Beniamino Joppolo, francese di adozione e amico di Rossellini che, non a caso, suggerì al regista quel testo e collaborò alla sceneggiatura, dopo averlo portato in scena al Festival dei due Mondi di Spoleto nel 1962. Va anche detto che un altro drammaturgo francese, Jacques Audiberti, “compagno di avventure” dei giovani critici e poi registi della “nouvelle vague”, l’aveva tradotto in francese e portato in scena nel 1958, attirandosi le critiche dello stesso Joppolo.
Per inciso, quello stesso testo, fu diretto nel 1974 da Marco Parodi per la compagnia del Teatro di Sardegna con una sottolineatura realistico/verista che intendeva annettere il destino di sudditanza della Sardegna in un contesto genericamente meridionalista. È infatti nel Meridione d’Italia che la ciclicità della trama – con le continue chiamate alle armi dei poveri contadini da parte di un Re lontanissimo – conferiva una sorta di verità storica alle disavventure della povera gente, totalmente estranea alle guerre in apparenza patriottiche del Novecento.

''Les carabiniers''Questo è quanto scriveva anche Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli (1945), romanzo memoriale nato negli anni del confino in Lucania.
In parte, anche il film di Godard, nell’ambientazione iniziale, omaggia il realismo rosselliniano. I quattro protagonisti (padre, madre, figlio e nuora) abitano infatti in un casolare isolato: sono contadini, artigiani ed anche disposti ad altri lavori basati sull’arte di arrangiarsi. Il diagramma sociale comprende dunque tutti gli esclusi: contadini, proletari, sottoproletari.
Quando i due maschi della famiglia, Ulisse e Michelangelo, vengono visitati dai carabinieri che li invitano a seguirli perché il re ha bisogno di loro per una nuova guerra, loro chiedono quali saranno le contropartite concrete al loro impegno. Ricevano così delle assicurazioni sul fatto di poter uccidere e depredare chiunque, in nome del re, e così arricchirsi. La successiva guerra include appunto, anche attraverso spezzoni di cinegiornali, tutti gli orrori del Novecento, dai campi di sterminio nazisti alla bomba atomica, dai gulag alle rivoluzioni del dopoguerra.

''Les carabiniers''Al ritorno i due protagonisti, mostreranno alle mogli i loro bottini: scatole di fotografie che racchiudono i paesi visitati e i grandi monumenti, le ricchezze e le bellezze.
Il film si conclude con una nuova guerra, questa volta tra fratelli (chiamata paradossalmente  “civile”) e la fucilazione degli ingenui soldati predatori, ma ciò che resta in mente, in mezzo al caos delle azioni e delle interferenze documentarie, è soprattutto la torsione comunicativa  warholiana: il mondo contemporaneo  ridotto a icona ripetitiva che sostituisce la realtà fattuale con i simulacri visivi che annunciano la società dello spettacolo. Ma anche prima che questo mondo, ormai segnato dalla distruzione totale, venga rappresentato come pura “immagine” ovvero come segno che non necessariamente può essere letto come realtà fattuale, le avventure di Ulisse e Michelangelo si confrontano con l’illusione cinematografica. In un locale in cui si proiettano le attualità Lumiere e i primi film di Mèlies, Michelangelo – come da mitologia ormai consegnata alla cronaca – dapprima si spaventa  per il treno che sembra fuoriuscire dallo schermo e piombare sugli spettatori, quindi si arrampica sul palcoscenico – la scena omaggia il celebre Sherlock jr (1924) di Buster Keaton – per cercare di vedere ciò che la censura non può mostrare in una scena dove una vasca da bagno nasconde le nudità di una donna.

''Les carabiniers''Dunque il racconto diventa facilmente metastorico – la guerra è un’occasione di emancipazione cruenta –  sottilmente segnato da un brechtismo ideologico e drammaturgico. È lo stesso regista
ad utilizzare una frase famosa del drammaturgo tedesco – “Il realismo non consiste in come sono le cose vere, ma in come sono veramente le cose” – per indicare la possibilità di mostrare ciò che è sempre stato “paludato” dai luoghi comuni della propaganda e dall’immaginario patriottico. Così, anche i personaggi finiscono per essere dei modelli per una teatralizzazione che invita gli spettatori a violare lo schermo di sicurezza dello spettacolo cinematografico.

''Les carabiniers''Criticato per la sua semplicità (apparente) e per la sua, sempre apparente, sciatteria (voluta e funzionale al tipo di messa in scena), il film non ebbe successo. Fu un caso di assoluta anomalia bel modo di far cinema del regista: rifiutava la spettacolarità hollywoodiana del cinema bellico – e fin qui non c’era da sorprendersi – e, nello stesso tempo, non si poneva neanche il problema di una citazione/caricatura di quel “genere”, emblema iniziale della “nouvelle vague”, che poi ritornerà apertamente in un altro film politico successivo: il già citato Agente Lemmy Caution missione Alphaville (1965), distopia su un prossimo futuro orwelliano in cui i sistemi capitalistici e comunisti si uniscono per creare un mondo totalmente controllato, anche nel pensiero.
Escludendo un altro suo grande film, La chinoise (1967), che aggiorna le tematiche di Le petit soldat ai tempi della ribellione giovanile maoista, aggiungendovi il nichilismo demoniaco dostoevskiano, la successiva fase politica di Godard, che avrà inizio dopo il maggio francese, nel 1968, quasi dimenticherà questo ricerca di senso attraverso uno scavo nelle immagini e delle drammaturgie complesse dei propri personaggi, scegliendo la via della provocazione intellettuale diretta, propagandistica e solipsistica.

8 luglio 2015

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