Percorso

Nanni Moretti e l’età della Krisis

Blog di Carlo Rafele

Nanni MorettiL’esordio di Nanni Moretti regista-attore avvenne in un luogo-culto della Roma anni ’70, il Filmstudio, regno di un caparbio drappello di adepti-cinefili che, sopportando scomodi sedili di legno, godevano del privilegio di proiezioni multiple, di estasi ripetute: sacerdoti e officianti di quella indimenticabile stagione che si è soliti definire cinema d’autore.

Moretti si presentò con le bobine sotto il braccio e patteggiò con il responsabile della sala la promozione di un’opera-evento il cui titolo ancora oggi, a distanza di quarant’anni, potrebbe esser posto a sigillo della futura scommessa: Io sono un autarchico (1976).
Nelle serate di programmazione - che si moltiplicarono dopo l’inatteso successo di pubblico – Moretti si rese protagonista di un’accortezza promozionale che era mancata ai giovani registi della generazione precedente: presenziò a tutte le proiezioni, accogliendo gli spettatori, sorridendo, stringendo mani, “fotografando” le espressioni del volto all’uscita, ascoltando o rubando commenti, reazioni e valutazioni a caldo, disvelando quindi una necessità che sotto certi aspetti si innestava nel “corpo” dell’opera: guardare in faccia lo spettatore, toglierlo dall’anonimato, sperimentare un legame concreto, seppur arbitrario, tra chi l’opera l’ha pensata e realizzata e chi in quel momento si incarica di raccoglierla, di riceverla, quindi di riconoscerla.
E sarà quel pubblico, del resto - il gusto e la curiosità intellettuale di quella prima legione di spettatori - che orchestrando un infallibile passaparola giornalistico-culturale, predisporrà il percorso per l’opera seconda, Ecce Bombo (1978), incantevole e infallibile ritratto di una generazione che si macerava e si annientava nella radicalità storica di linguaggi e comportamenti, in previsione di uno schianto politico di dimensioni epocali.

Nanni MorettiNon è mia intenzione, ora, tracciare la cronistoria della fortunata filmografia morettiana che attraversa con vivida pregnanza l’ethos della nostra storia contemporanea - tra psicodramma e commedia – originando un sentimento di stretta appartenenza, offrendosi come modello per una Comunità di spettatori testardi e appassionati che in quel cinema individua innanzitutto l’epilogo di una scommessa intellettuale e politica, la messa in mora e in rovina di una “fede”, mirabilmente circoscritta nei film Palombella rossa, La Cosa, Aprile (1989, ‘90, ‘98).
È del tutto evidente che Moretti ha anticipato nel dramma-parodia delle opere del periodo centrale - Sogni d’oro, Bianca, La messa è finita, Caro Diario (girati tra l’81 e il ‘93) -  il destino di una storia condivisa: nell’Io titanico e intollerante di un personaggio che ha nome e cognome - Michele Apicella - convergeranno le sorti “progressive”, e non da meno cupe, di un’Italia sfilacciata, divisa, sobillatrice, sfiduciata e mendace.
Forse è proprio nella fase di convulsa agitazione politica, nella delicata temperie sociale - quando Moretti, indicato e osannato come leader di uno schieramento che scavalca i partiti “ufficiali” della sinistra, a un passo dall’incoronazione pubblica, decide di non prestarsi all’impegno diretto - che è da cercare il preludio dell’ultima, sofferta stagione del suo cinema, centrata su tre titoli che per certi aspetti restituiscono il medesimo assillo: La stanza del figlio (2001), Habemus papam (2011), Mia madre (2015).
Sicché le fattezze, che parevano disperse o dileguate, di Michele Apicella, trovano nuovo respiro nello psicanalista Giovanni Sermonti, nel cardinale che non si ritiene “capace” di assolvere il mandato supremo (Michel Piccoli), nel dramma estetico-esistenziale della regista (Margherita Buy) che si preoccupa di tenere insieme la realtà di una madre morente con la trepidazione professionale di un’opera nascente.

Nanni MorettiTre titoli che aggiungeranno altri aggettivi al variegato “catalogo” morettiano, tra i quali uno spicca per manifesta, conclamata reiterazione: Inadeguatezza! Dal cardinale appena eletto Papa, che lascia vuoto il balcone di San Pietro ritirandosi dietro le quinte, alla regista gravata di responsabilità che d’improvviso avverte lo scollamento tra sé e il mondo: «Il compito del cinema! Ma perché continuo a ripetere le stesse cose da anni? Tutti pensano che io sia capace di capire quello che succede, di interpretare la realtà, ma io non capisco più niente».
Un preciso convincimento che rimarca ferite e fratture interiori più volte ripetute e più volte rilanciate da Moretti nelle interviste o nelle pubbliche dichiarazioni, al punto da suscitare con pudica naturalezza la domanda centrale: perché Moretti sceglie di mostrare l’Inadeguatezza? E se l’Inadeguatezza chiama in causa egli stesso, perché si dichiara inadeguato? E, soprattutto, inadeguato a che cosa?
Nella materia originaria del suo cinema si è innestato qualcosa di straniante e di non ancora determinabile, come se l’atto di volontà con cui egli era solito definire e puntellare la realtà - da vero eroe e martire del gesto iconoclasta - si fosse rovesciato in un’azione di resa, controllo, delimitazione dei perimetri di azione, protezione dal caos: insomma, il non possumus del Papa che ha conquistato il soglio supremo e sa di non poterlo sostenere.
Abdicando dai toni leggendari delle opere precedenti, lo sfrontato eroe morettiano si è consegnato al “non sapere”, al non più identificare i dati cruciali della realtà-racconto, non più captare con naturalezza, magari denunciandone i contenuti mistificatori, fenomeni che nella fase precedente aveva saputo aggredire, “domare” con soverchiante energia.
Ne La stanza del figlio ogni elemento, ogni scansione della trama, è avvolto dal rigido controllo di un copione meticoloso: i personaggi, a cominciare dalla moglie-madre Paola (Laura Morante), passando per la figlia Irene (Laura Chiatti), percorrono un perimetro cinematografico circoscritto e prevedibile: sembra per paradosso che questo schema sia così tanto evidente e “scoperto” da ridurre la recitazione degli attori a una “convalida”. I pazienti dello psicanalista Giovanni Sermonti appaiono l’unico tentativo drammaturgico di deviare la rigidità del dettato narrativo, prima che nello schema della sceneggiatura affiori – autentica figlia del caos - il personaggio minore di Arianna (Sofia Vigliar), colei che è stata la fidanzata di Andrea per pochi giorni: figura che mette a soqquadro la linearità della trama, spingendola oltre-confine.
Sorte non dissimile attraversa il personaggio di Margherita, la regista di Mia madre, costretta ad agire nel solco di un casellario che prescrive un rigido tracciato: il set, l’ospedale al capezzale della madre morente, la propria affannosa solitudine dove si radunano, a volte con inattesa lungimiranza, pensieri e idee sulla difficoltà di stare al mondo.
Se osserviamo tali scelte nel “controluce” delle prove precedenti, ancorché giovanili o del periodo centrale, accertiamo quanto profonda e sostanziale sia la differenza: le opere del Moretti dell’epoca anteriore pullulavano di ombre trovate per caso, lampi di idee che si imponevano al di là del copione, creature e figurazioni che parevano esenti da pregiudizi di sceneggiatura, deflagrazioni del senso sia poetico che cinematografico che trovavano impatto immediato sullo spettatore e sulla “plasticità” del racconto.  
Alcune sequenze di Mia madre paiono composte intenzionalmente – e provocatoriamente - per evocare il prevedibile e l’immaginabile, come se Moretti volesse insistere sul non-valore delle azioni e dell’ideologia dei personaggi, come se volesse sottolineare l’assurdità o la velleità che sta dietro ogni percorso individuale. E il fratello Giovanni - personaggio paludato, privo di qualità, che ha la smania di spiegare ogni cosa con pedanteria insopportabile – diventa, nella rêverie di Margherita, colui che si arroga il diritto di rammentarle ciò che un cineasta dovrebbe essere: «Rompi lo schema, fa qualcosa di diverso, lasciati andare, agisci con leggerezza».

Nanni MorettiLa parola Inadeguatezza compare, come parola-chiave e decisiva, nel titolo della lunga intervista che lo scorso ottobre Moretti ha registrato per i Cahiers du cinéma, presenti il Redattore-capo Stéphane Delorme e il critico Emiliano Morreale: intervista apparsa il mese dopo, nel numero 716, con in copertina una foto en gros plan del regista romano.
Sappiamo da decenni l’ammirazione, se non l’adorazione, che la Francia culturale e cinematografica tributa, al di là di ogni ragionevole dubbio, al regista de Il Caimano. E conoscendo l’impegno critico di Delorme - la profondità della sua scrittura, la capacità di raccogliere sintesi particolari e brillanti - eravamo in attesa di un ariete che senza preconcetti o forzose mascherature trovasse varchi efficaci di “presa” nel dialogo con Moretti.
Così non è: non c’è volontà di problematizzazione o di sovvertimento dei consueti parametri morettiani: nemmeno una provocazione, un guizzo “laterale” che spalanchi un varco effettivo sull’imbastitura teorica degli ultimi film. Gli argomenti risultano poco pregnanti e Moretti ha ancora una volta buon gioco nel duplicare perentoriamente il suo “punto di vista”, già espresso in analoghe occasioni negli stessi giorni, vedi la conversazione con Jacques Morice, apparsa il 2 dicembre sulla rivista Télérama:
«È un film nel quale ho tentato di essere al servizio dei sentimenti dei personaggi, anzi, delle “persone”, oserei dire. Così da ottenere il massimo di autenticità. Non volevo mostrare i muscoli, piuttosto “nascondermi”, sia come regista che come attore. Mi importava più di ogni altra cosa raccontare emozioni. Anche il tempo del film scorre in simbiosi con il tempo emozionale di Margherita… che è chiamata continuamente a confrontarsi con numerosi problemi, tutti da risolvere con urgenza. Ma, al tempo stesso, volevo far “vedere” i suoi sogni, i suoi pensieri, per cui la si scopre spesso “altrove” rispetto all’azione che deve compiere».
E noi, dunque, dove possiamo situare l’ultimo film e l’ultimo gradino del cinema morettiano? Come farli interagire con le epoche precedenti? Si tratta di oblio, dell’abbandono “programmato” di un percorso? E poi: è davvero  sulla Inadeguatezza che va misurato lo sbalzo delle ultime prove, il “non saprei cosa dire” con cui si rivolge agli spettatori e ai commentatori, in perfetta sintonia con il “nullafacente” Giovanni di Mia madre, che alla sorella esagitata confessa: “Io mi sono messo in aspettativa”?
Una sentiero diverso si dischiude se valutiamo l’Inadeguatezza - sulla scia della mirabolante sorte del cardinale Melville - una categoria dello spirito, l’espressione di un movimento invisibile che sta per compiersi, per venire allo scoperto, che occhieggia in attesa di palesarsi, che si specchia nel fondo ma senza ancora manifestarsi. Collimerebbe con ciò che Moretti aveva enunciato a proposito di Habemus papam: «Volevo raccontare la storia di qualcuno che si sente inadeguato e volevo farlo in chiave di commedia. L'inadeguatezza, se non è paralizzante o autodistruttiva, è un sentimento che consiglio a tutti noi».
Da qui ci scopriremmo proiettati verso una parola-destino che porta in dote una radice etimologica gloriosa e disperatamente ambigua: la parola Krisis. Parola-ventaglio, parola-raggiera che abbranca e statuisce vari significati, prestandosi alla doppiezza e alla “disparità” del significato: Krisis è minaccia, crollo, caduta, resa, ma è al tempo stesso chance, occasione, mutamento, passaggio ad una situazione di riscatto, uscita da una stasi patologica.
Sono appunto le “forze” che nel cinema morettiano più recente convivono senza riuscire ancora a prevalere, che si danno battaglia senza raggiungere una svolta, un cambiamento di direzione, un mutamento radicale.

Nanni MorettiLa “figura” investita direttamente da tale istanza è proprio il Soggetto, la forma-soggetto, quell’Io morettiano un tempo invincibile, foriero di celebrità, ma oggi ferito, sbaragliato, reso afono da una realtà irregolare, disarticolata, che ha smarrito ogni atavica centralità, sicché i due nodi focali prevalenti del suo percorso – la coscienza e la politica – si ritrovano cangiati, trasformati, anche rispetto al Linguaggio-cinema, dentro il quale domina l’assenza di dinamicità, lo scivolamento verso una convulsa “strettoia” di campi e controcampi.
Nell’intervista ai Cahiers, Moretti rivendica la legittimità e l’attendibilità del Soggetto protagonista e osservatore – “Il mio modo di fare cinema è fare film in prima persona” – ma in cuor suo sa bene che sta cercando un Soggetto altro, altro da sé, e che l’alternativa non può consistere semplicemente nell’affiancare o alternare una realtà interiore, di coscienza riflessiva, all’inestricabile, indecifrabile viluppo della realtà effettiva.
Anche perché quell’Io, quel Soggetto, di cui una parte del cinema d’autore rivendica la “resistenza” ad oltranza, appare ormai fugato, dileguato, parcellizzato, frantumato: sopravvive come pallido simulacro, di esso è rimasto “l’astuccio”, direbbe Cechov (ciò che del resto è comprovato da alcune sperimentazioni filmiche del 2015 firmate Miguel Gomes, Apichatpong Weerasethakul, Andrzej Zulawski).
Importante, piuttosto, tornando ai temi dell’intervista, l’accenno che Moretti fa sul diverso “finale” che la sceneggiatura di Mia madre aveva previsto e che poi non venne girato: «Il film non finiva nella casa della madre. Avevamo pensato di terminare il film sul personaggio dell’infermiera, sul figlio di lei, che era fuggito di casa. Avevo anche girato alcune scene tra Margherita e l’infermiera, dove si parlava di questo figlio scomparso. Avevamo previsto che l’infermiera, mossa da una spinta irrazionale, andasse a un concerto rock nella speranza di trovarvi suo figlio, sapendo che il ragazzo era un seguace del gruppo di musicisti. Ho cambiato idea girando: ho capito che la scena finale non avrebbe potuto svolgersi che nella casa della madre».
Lo sforzo del Moretti degli ultimi anni pare dunque proteso a mantenere in piedi e in equilibrio la credibilità dell’antico Soggetto, sfidando la dispersione e l’annichilimento dell’Io, riproponendo testardamente il Sé come collante e forza propulsiva, magari facendo propria l’accezione profonda che alla parola Krisis diede il filosofo Edmund Husserl, quando la definì – sviluppando un’intuizione kantiana - ragione pigra o indolente, connotando così un Soggetto che crede di aver adempiuto al suo compito, di averlo pienamente assolto e che preferisce ritrarre le proprie forze, proprio per scongiurare la possibilità di nuove fughe o nuove lontananze.
Moretti rimane in drammatico equilibrio “tra” questa doppia, ambigua consapevolezza: conscio dell’esigenza di risospingere la coscienza verso il “fuori” – la “fuga” del Papa dalle stanze vaticane – ma conscio anche di non possedere risposte alla strategia della complessità:
Cahiers du cinéma: «Si sente ancora impegnato politicamente?»
Moretti: «Mi sento confuso e non ho voglia di dire banalità. Preferisco tacere. Soprattutto non condivido i modi con cui oggi in Italia la politica si pensa e si fa. Preferisco astenermi».
Télérama: «Il cinema la aiuta a vivere meglio?»
Moretti: «Il cinema ha virtù terapeutiche per chi lo guarda, non per chi lo fa! Per me il cinema non è una cura. Ho passato tutta la vita a fare film sui miei “tic”, le mie manie, le ossessioni… ma ogni cosa è rimasta intatta, come il primo giorno. Nulla è cambiato da quel punto di vista».
Télérama: «Con l’arrivo al governo di Matteo Renzi, molti dicono che in Italia è in atto un risveglio culturale. Lei condivide questo ottimismo?»
Moretti: «È un fatto: con Renzi l’Italia non vive più una situazione irregolare. Non è più un paese in ostaggio degli interessi finanziari, economici e giudiziari di una sola persona. Ma prima di rispondere con esattezza alla sua domanda, preferisco aspettare, soprattutto evitare argomenti generici o banali. È presto ancora per rendersi conto giorno dopo giorno dei cambiamenti reali, capire ciò che veramente cambia in concreto».

(P.S. Il riferimento a Husserl mi consente un affettuoso legame della memoria: chi scrive ricorda che Nanni è stato uditore, nei primi anni ’70, delle memorabili Lezioni di Emilio Garroni su Kant e sulla Critica del Giudizio: cattedra di Estetica, Università “La Sapienza”, Roma)

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16 dicembre 2015

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