Percorso

''Fuocoammare'' di Gianfranco Rosi, ''Behemoth'' di Zhao Liang

Memorie d'oltrecinema. Gianni Olla ci apre la sua cineteca per riscoprire grandi film che riemergono dal passato.

Gianfranco RosiUna coincidenza ha fatto si che due film notevoli, che un tempo si sarebbero chiamati documentari, siano transitati, in circostanze diverse, nelle sale cinematografiche. Il primo è Fuocoammare di Gianfranco Rosi, vincitore dell’Orso d’oro al Festival di Berlino. Il regista italiano aveva già conquistato il Leone d’oro alla Mostra internazionale del cinema di Venezia, nel 2013, con Sacro GRA, girato ai margini del Grande Raccordo Anulare di Roma.

Fuocoammare è interamente racchiuso nell’isola di Lampedusa, negli ultimi quindici anni, “non luogo” per migliaia di emigrati o profughi, provenienti in larga parte dall’Africa, che, nei centri di raccolta dell’isola, trovano contemporaneamente salvezza dalla morte (per le guerre, la miseria, ma anche i continui naufragi dei barconi) e spesso una nuova prigionia.

Zhao LiangIl secondo film è Behemoth di Zhao Liang, cineasta e artista cinese, molto quotato in campo internazionale e molto osteggiato in patria. Presentato nel 2015, in concorso, alla Mostra del cinema di Venezia, è stato il “pezzo forte” di una piccola ma significativa rassegna dedicata al cinema asiatico (Across Asia Film Festival), che ha permesso di vedere anche alcune opere della sconosciutissima cinematografia di Singapore. A breve, il film dovrebbe essere disponibile nell’home video.
Partiamo dal titolo: Behemoth è un celebre mostro biblico descritto nel libro di Giobbe. Questa citazione che comprende il più celebre Golem ebraico, ci servirà per capire maggiormente il senso “totalizzante” di un film che esplora un paesaggio infernale ai margini del mondo occidentale: le miniere di carbone e di ferro, nonché le acciaierie della Mongolia interna, vastissima regione della Cina nella quale si registra il più grande, esteso, e pericoloso inquinamento ambientale del nostro pianeta.  Il dato cronachistico si collega ad una apocalisse dell’umano che mette assieme Dante – l’inferno è però umanissimo, ovvero ideato, provocato e gestito dall’uomo – e il Faust di Goethe.

''Fuocoammare''L’idea “documentaria” di questa pellicola, così come quella che emerge dai due film di Gianfranco Rosi, è ovviamente lontana sia dal modello Lumiere (gli ultimi impressionisti, secondo Godard), sia dalle prime realizzazioni professionali degli anni Venti e Trenta, che fecero coniare il termine “differenziale” di documentario, contrapposto alla “finzionalità” di tipo narrativo della maggior parte dei film destinati alle sale commerciali. Ma a ben vedere, sia Flaherty che Grierson, i primi nomi celebri che s’incontrano in ambito documentario, non nascondevano l’idea centrale di una realtà che, dietro l’apparente naturalezza delle immagini in movimento, era già molto organizzata in senso specificamente filmico. Non si trattava di mettere la macchina da presa nella posizione migliore per poter restituire allo spettatore una rettangolo di realtà immediatamente riconoscibile ed estendibile, anche virtualmente, nel corso dell’intera proiezione, ma piuttosto di montare frammenti di realtà (magari vissuti davvero durante le riprese) che potessero dare un’idea credibile del mondo esterno. Altrettanto significativa sul piano della “creazione” di un mondo, fu la carriera di un altro documentarista, Joris Ivens,  forse l’autore maggiormente impegnato a fornire un modello mitologico e politicamente impegnato al cinema non finzionale.

L’uso perverso del documentario da parte delle  creò altresì, soprattutto in Italia, un modo di produzione e, automaticamente, una forma filmica che stabilizzò l’idea della “costruzione di un mondo” piuttosto che la sua scoperta. Anche i migliori esempi di documentario antropologico – per tutti i film di De Seta, girati in Sicilia, Calabria e Sardegna – non sfuggono a quella che Alberto Farassino ha definito una forma “operistica”, basata cioè sullo spettacolo della realtà.

''The War Game''Parzialmente influenzato dall’egemonia televisiva, negli anni Settanta il vecchio genere fu quasi cancellato – se non in alcuni settori specializzati e direttamente legati alla promozione turistica, culturale, industriale – dal documentario-inchiesta, in cui la ricostruzione andava di pari passo, data l’immediatezza della comunicazione , con la scoperta. Poi, già a metà degli anni Ottanta, con l’uso sempre più intenso delle telecamere leggere, anche se non ancora digitali, il genere è diventato una sorta di sterminato campo di prova degli autori, non necessariamente influenzato dai meccanismi commerciali. La “non fiction” – il termine è più corretto, dati i continui slittamenti di senso delle definizioni “generiche” – si è così riappropriata della realtà, questa volta sottoposta non già a un semplice progetto “costruttivista”, ma al semplice sguardo del regista. Il digitale, e le successive “protesi” audiovisive (cellulari, Iphone, Ipad), hanno, provvisoriamente, chiuso il cerchio dell’autorialità e della scoperta del mondo.

In questa lunga transizione verso la scomparsa del genere, è apparso come nemesi storica, un nuovo termine: mockumentary,  cioè falso documentario, o, letteralmente, presa in giro del genere. Il prototipo è indicato addirittura in un film del 1965, The War Game di Peter Watkins, che, per simulare un possibile attacco nucleare alla Gran Bretagna, utilizzava le forme e la retorica del documentario. Paradossalmente, nel 1966, vinse l’oscar come miglior documentario.  Altri film più recenti, paradossalmente di grande successo e tutt’altro che realisti, sono stati The Blair Witch Project (2000), Rec (2007), Cloverfield (2008), dei veri e propri video – poi mostrati su grande schermo con le “stimmate” originali del cinema “fatto in casa” a bassa definizione – nei quali le immagini si sviluppano entro un processo di rivelazione di un mondo oscuro, prevalentemente fantastico o orrorifico colto da una telecamera. L’esatto contrario del realismo.

''Zelig''Ma era già un mockumentary un film quasi dimenticato di Woody Allen, Zelig (e non un’opera qualunque ma uno dei suoi capolavori) che racconta la vita di Leonard Zelig, un uomo che, negli anni Trenta del dominio dell’uomo massa, non appena si trova accanto a un suo simile, ne assume le fattezze, il linguaggio e la personalità, e persino il mestiere o la professione. Nel 1983, quando fu presentato alla Mostra del cinema di Venezia, ci furono anche spettatori (e persino qualche critico) che chiesero in giro notizie storiche sul personaggio. Non c’era ancora Wikipedia e soprattutto,  l’obbligatoria sonnolenza provocata dalle troppe ore passate a vedere film, nonché la forma filmica classica, intessuta di testimonianze a personaggi reali (Susan Sontag, Saul Bellow, Bruno Bettelheim) e di reperti documentari autentici, agevolava la penetrazione del “falso” in un contesto storicamente credibile.  

''I morti di Alos''Riducendo la scala della celebrità, un caso locale di “mockumentary” geniale e ruffiano (i due termini possono coesistere, come ha dimostrato ampiamente Welles in un altro mockumentary, F for Fake, ultima fatica del regista americano, apparsa nel 1974) è stato, negli anni scorsi, I morti di Alos di Daniele Atzeni, che rievoca un falso disastro ambientale accaduto in Sardegna tanti anni prima e che avrebbe letteralmente spopolato un paese e provocato migliaia di morti. È facile leggere il cortometraggio come allegoria dei lasciti “velenosi” dell’industria petrolchimica sarda, altamente inquinante e ormai neanche economicamente solida. Ma, seguendo l’affascinante percorso di due studiosi olandesi (Thomas Elsaesser e Marthe Hagener), se si applica all’analisi del film il concetto di soglia, ovvero di finestra sul mondo (che quindi dà accesso al reale) o di cornice, che racchiude semplicemente la creazione di quel mondo, ecco che il vero e il falso possono essere facilmente separati, ovviamente se lo spettatore ha sufficienti informazioni, non necessariamente di tipo filmico, ma piuttosto storico e geografico.

''I morti di Alos''Se ci si affaccia sui resti architettonici di Alos, filmati al crepuscolo e circondati da un’atmosfera nebbiosa, quasi da Nosferatu di Herzog, si potrebbe arrivare a riconoscere il paese abbandonato di Gairo, comunemente segnato nelle carte come Gairo Vecchio. Assieme al vicino e ugualmente spopolato e diroccato paese di Osini, anch’esso denominato Osini Vecchio, fu davvero abbandonato nel 1951, dopo che le piogge torrenziali provocarono lo slittamento verso il fondo valle delle terrazze collinari dove sorgevano i due borghi. Entrambi i borghi furono ricostruiti più in basso, lasciando alle mura e alle stradine dei vecchi paesi, il ruolo di testimoni, progressivamente fantasmatici, di un’esistenza storica. Varcando la soglia della finzione allegorica proposta da Atzeni, ci si ritrova dunque in una realtà che propone altri significati. A patto ovviamente di riconoscere, o di essere pronti a conoscere, quel che realmente è stato filmato e poi “ricostruito” in una trama metastorica.
Allo stesso modo si può entrare facilmente nei materiali documentari, “certificati” (la transumanza filmata da Fiorenzo Serra alla fine degli anni Cinquanta), che, in contrasto con il presente catastrofico e criminale, dovrebbero raccontare il passato mitologico della Sardegna pre industriale. In una lettura filologica, infatti, quelle immagini non rappresentano affatto la solita inesistente età dell’oro, ma piuttosto la “lotta per la vita” del mondo pastorale sardo. Nonostante tanta bellezza e tanta poesia, nessun film di Serra sfugge al contrasto tra “preistoria” dell’uomo, terribile e crudele, e contemplazione di un mondo in estinzione che ci dispiace abbandonare, visto che è stato anche il nostro passato di spettatori.

Ma il modello di documentario, o di film “tout court”, progettualmente falsificato e non certo per motivi legati alla vecchia propaganda politico-istituzionale, è oggi superato, fortunatamente, da una novellizzazione automatica del reale.
Sono proprio i due film di Gianfranco Rosi a porsi come modello di questo superamento di soglie o meglio di scavalcamento delle finestre che dividono il reale dal filmico. E si possono citare anche altri nomi italiani, da Pietro Marcello (La bocca del lupo, Bella e perduta) a Michelangelo Frammartino (Il dono, Le quattro volte) e inserendo obbligatoriamente anche Costanza Quatriglio (Terramatta) e l “americano” italianissimo Roberto Minervini (Lousiana) che  testimoniano questo passaggio di consegne avvenuto nel nuovo secolo.

''Sacro Gra''D’altro canto, questo difficile confine tra “costruzione” cosciente e realtà colta sul fatto, è anche e soprattutto la conseguenza di una ipertrofia dell’immagine in movimento (cinematografo, tv, computer, cellulare e altri protesi comunicative-audiovisive)  in cui ci troviamo a vivere. Il grande raccordo anulare romano di Sacro GRA è infatti il classico “non luogo” che, nella realtà, dovrebbe segnare il confine tra la vita collettiva e i suoi margini indistinti.  Ma il “non luogo” raccontato o mostrato da Gianfranco Rosi, è in realtà vivissimo: i suoi margini si possono facilmente  novellizzare attraverso   un concetto caro a Daniele Segre: l’autorappresentazione. Anche questa è una tecnica che, negli ultimi vent’anni, ha trasformato radicalmente il genere documentario. È anche obbligatorio ricordare che la grande autostrada romana (il GRA appunto) fece la sua straordinaria apparizione nell’unico e grandioso “mockumentary” di Federico Fellini, Roma (1972), ritratto memoriale che continuamente scivola dall’autobiografia alla smisurata fantasia surreale, unica via di salvezza alla dittatura dei “non luoghi”, già esplorata in un titolo minore del regista, Toby Dammit, apparso nel 1965 e ispirato a Edgar Allan Poe. In Roma, il caos documentario dell’autostrada urbana più lunga del mondo, si trasforma, inquadratura dopo inquadratura – e pur con la presenza testimoniale di una vera “troupe”, guidata dallo stesso Fellini – in un campionario di “romanità” surreale, sempre più legata all’onirismo poetico del regista, ma anche tenuto strettamente entro i confini di un proprio incubo che dovrebbe essere trasmesso agli spettatori.

''Fuocoammare''I confini, le soglie (varcate o meno) di tutti questi titoli appartengono ancora a un cinema rassicurante. Allo spettatore dovrebbe rimanere l’ultima scelta: attraversare la finestra in cerca del reale, o stare al sicuro a contemplare l’invenzione dei luoghi, delle azioni e dei personaggi.
Invece, con Fuocoammare, il tema – la vita a Lampedusa tra pedinamento zavattiniano di alcuni abitanti ed emergenze umanitarie – non consente facilmente di stare fuori dalla finestra. O meglio, ci pone nella stessa situazione, sperimentata quasi ogni giorno di fronte alla tv, del celebre testo teatrale di Ionesco, Il rinoceronte (1960), storia di un’epidemia o psicosi collettiva – già ipotizzata da Jung a proposito della straordinaria popolarità del nazismo – che trasforma gli esseri umani in rinoceronti. Ma, per i primi due atti, nessuno se ne cura, perché le notizie e gli avvistamenti degli animali, sono rari e “mediati” dalla comunicazione o dalle dicerie. È certo che la televisione e gli altri media “social” hanno aumentato in maniera straordinaria questa sensazione di sicurezza familiare, anche in presenza di terribili “rinoceronti” sparsi in tutto il mondo, magari ai nostri confini. Anche il film di Rosi, attua una visibile e provocatoria divisione tra i “rinoceronti” invasori e la Lampedusa quotidiana e familiare, rappresentata principalmente da un adolescente.

Samuele, questo è il nome del protagonista, ama le fionde: cerca i legni adatti e le costruisce da sé; quindi va a caccia di uccelli. Non ama il mare e le poche volte che sale a bordo di una barca, inevitabilmente sta male. Il mare, appunto, è una presenza/assenza nella vita dei pochi abitanti pedinati dal regista, o meglio costretti a un auto rappresentazione. Oltre a Samuele, che ha un occhio pigro da rieducare, ci sono i suoi familiari, un pescatore, e soprattutto un medico, punto di congiunzione tra la comunità che cerca di mettere in sicurezza la propria esistenza quotidiana, e i flash puramente “testimoniali” e quasi notarili, anche se di grande intensità visiva, dedicati ai quotidiani salvataggi dei barconi dei fuggiaschi e degli emigranti.

''Fuocoammare''Anche i racconti del medico hanno quest’apparente indifferenza “tecnica”: si tratta di curare i malati, di salvare vite o semplicemente di certificarne la morte.
Si potrebbe usare la pigrizia oculare di Samuele come allegoria generale del “non vedere” le tragedie umanitarie, anche quelle ormai vicinissime (i rinoceronti/uomo di Ionesco, che conquisteranno il mondo); ma sarebbe un’interpretazione fin troppo facile. Perché è certo, invece, che,  come spettatori televisivi, siamo quotidianamente “invasi” dalle immagini delle tragedie, lontane e vicinissime, non solo a Lampedusa ma anche in altri luoghi: il tema dei “migranti” domina una fetta importante, dell’opinione pubblica che basa la propria azione sul dovere dell’accoglienza e  della conoscenza dell’altro, anche attraverso film e documentari, come specchio di un possibile e alternativo “fardello dell’uomo bianco” che dovrebbe riscattare il colonialismo trionfante esaltato da Kipling nella sua celebre poesia.

Il paradosso del film di Rosi, e la sua importanza, riguarda l’impossibilità di varcare più di tanto le linee di confine tra noi e gli altri. La spettacolarizzazione mediatica della tragedia dei migranti offerta quotidiana dalle immagini televisive è un dato di fatto non contestabile e neanche criticabile, ma anche la vittoria di un film come Fuocoammare  in un festival prestigioso come quello berlinese, è un avvenimento da spettacolo. La scelta di raccontare la presunta normalità – la vita che continua – di una comunità schiacciata dall’emergenza, è anche un avviso agli spettatori: se varcate la soglia di sicurezza dello spettacolo, trovate una realtà oltre modo sgradevole, e potreste essere costretti a rifugiarvi di nuovo nel vostro mondo, a coltivare la pigrizia oculare che, tutto sommato, vi ha salvati.

''Behemoth''Facilmente, anche  Behemoth di Zhao Liang potrebbe essere interpretato come un film di soglia, o di confine, non a caso presidiato dall’uomo/feto che compare in numerose sequenze al margine basso dell’inquadratura: segna  il limite tra la normalità e l’inferno che si spalanca in tutto il suo orrore. Varcato quel limite, ci troviano di fronte alle esplosioni che distruggono le montagne;  ai cumuli di carbone, le cui polveri entrano nei polmoni, negli occhi e nella pelle dei minatori;  al fuoco delle acciaierie; ma anche ai minimi inserti che ci raccontano di un altro tempo e di un altro mondo, come fosse impossibile non evocare un’età dell’oro: un fazzoletto di terra verdissima, sormontata dalla parete di montagna dietro la quale ha inizio l’inferno; un’Urga, la casa/tenda dei mongoli nomadi che fa sosta ai margini della zona “infetta”.
Quell’uomo/feto ci difende dall’osare troppo e, nello stesso tempo, si trasforma in Virgilio, guida dantesca che percorre il paesaggio devastato portando sulle spalle un grande specchio: attraverso lo specchio quelle immagini orrorifiche diventano una sorta di “mise en abyme” capace di generalizzare o di universalizzare quella piccola porzione di mondo. Sarebbe facile non  già attraversare il confine, ma muoverci attorno ad essso seguendo le immagini riflesse, come in un una vera e propria installazione che, al di là delle istruzioni per l’uso da parte dell’artista, possono essere esplorate e “rimontate” da ogni singolo spettatore. L’impedimento non è però né tecnico, né filmico, ma piuttosto storico e geografico.

''Behemoth''Possiamo essere turbati dai rinoceronti che arrivano dal mare, sui barconi: vorremmo accoglierli o respingerli, a seconda della nostre idee, oppure possiamo proseguire con la nostra vita quotidiana, sapendo che stanno arrivando sempre più numerosi. Come accade appunto in Fuocoammare di Rosi. Ma la Cina è ancora troppo lontana: i rinoceronti diventano quasi un’attrazione esotica eguale e contraria a quella storica, segnata quasi da un’illusione romantica: invece del paradiso tibetano del Shangri-Là, l’inferno della modernità spinta all’eccesso. Se  Dickens lo possiamo leggere come biografia collettiva di un mondo passato che non esiste più, almeno in  occidente (ma non è detto che non ritorni), il film di Zhao Liang assume un valore testimoniale e poetico che non ci obbliga a scavalcare quel feto che fa la guardia all’inferno. O forse, proprio l’essenza documentaria del film, quasi senza presenze umane che non siano già determinate da una condizione irreversibile, ci salva dal coinvolgimento.

''Still life''Così, si può contrapporre a Behemoth, un altro film cinese di dieci anni fa, Still Life di Jia Zhangke, vincitore del Leone d’oro a Venezia, nel 2006. Giusto per proseguire attraverso le nuove definizioni di genere, il film potrebbe essere una mockufiction (ammesso che questo termine ossimorico esista davvero), ovvero un falso racconto, o un racconto che protegge, attraverso la finzione, la vera e grandiosa visione della catastrofe.
Difatti, il film racconta la storia di un uomo che torna al suo paese natale dopo un esilio durato sedici anni. Ha lasciato moglie e figlia, ed ora non le ritrova più e non sa dove siamo finite. Il suo percorso s’intreccia con altri “dispersi”, ma tutti sono sovrastati dalla natura morta (Still Life) del titolo: i paesi che, pian piano, vengono evacuati e poi distrutti per far posto alla celebre diga delle Tre Gole, il più gigantesco lavoro di sbarramento idraulico mai realizzato. Così gli intrecci familiari e sentimentali finiscono per incastrarsi con la scomparsa progressiva delle loro radici concrete: crollano le case, le strade, i ponti, le pareti rocciose.
Paradossalmente, riusciamo a seguire il film in virtù del sempre presente fascino della narrazione, ma ciò che ci resta in mente è l’immagine di questo sprofondamento girato paradossalmente in tempo reale, mentre anche gli abitanti, rappresentati dai protagonisti, si apprestano  ad affondare assieme alle mura di casa. Nella comune esperienza spettatoriale è magari difficile raccontare in dettaglio una trama, ma il ricordo di quelle immagini, che paradossalmente ci riportano alla nostra piccolissima Gairo filmata da Daniele Atzeni, s’installa nel nostro cervello. Abbiamo varcato la soglia del mondo filmico attraverso il racconto.

9 marzo 2016

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