Percorso

Due anni di Marco Bellocchio

Memorie d'oltrecinema. Gianni Olla ci apre la sua cineteca per riscoprire grandi film che riemergono dal passato. Salto nel vuoto (1980) Gli occhi, la bocca (1982) di Marco Bellocchio

Marco BellocchioNella filmografia di Marco Bellocchio il periodo che ha inizio a metà degli anni Ottanta e si conclude, più o meno, alla fine del secolo scorso,  ha rappresentato – e tuttora rappresenta – una sorta di “buco nero” che la critica e persino gli studi specialistici hanno difficoltà a decifrare.

Stiamo parlando di titoli come Il diavolo in corpo (1986), La condanna (1991), Il sogno della farfalla (1994), Il principe di Homburg (1996), La balia (1999), spesso accomunati da un’aperta e quasi sprezzante sottovalutazione dell’autorialità del regista, plagiato – secondo quanto scrivevano la maggior parte dei critici – dal suo psicanalista di fiducia, Massimo Fagioli, che appare anche come sceneggiatore di La condanna e Il sogno della farfalla.

Poiché questo intervento riguarda il frammento filmografico – Salto nel vuoto e Gli occhi, la bocca, girati rispettivamente nel 1980 e nel 1982 – che precede i titoli citati, non mi avventurerò sul terreno difficile delle rivalutazioni, se non per quanto riguarda la trasposizione moderna del romanzo di Radiguet, Il diavolo in corpo, molto distante, sul piano filosofico, dall’originale letterario, eppure, secondo il mio modesto parere, tra i film più belli e originali firmati dal regista.
Tornando agli altri titoli, è comunque difficile “staccare” un pezzo così ampio della filmografia di Bellocchio dal concetto autoriale: la sua opera fa infatti parte di quella sorta di biografia inconscia, o semplicemente dominata dall’espressione artistica, che Marcel Proust riteneva essere la vera autobiografia di ogni artista, talvolta distante anni luce dalla propria vita. E del resto anche Pessoa, a proposito dell’esistenza umana, sottolineava che “tutti hanno due vite: quella che vivono e quella che immaginano o sognano.”

''Gli occhi la bocca''Infine, quel blocco misterioso – forse solo incomprensibile o sgradito ai critici, tra i quali non posso che essere compreso – è solo una fase di transizione di quell’Io profondamente turbato che appare in tutta la sua opera. E non a caso, non solo Bellocchio, durante la progettazione di Salto nel vuoto e Gli occhi e la bocca, era già in terapia con Massimo Fagioli, ma soprattutto la strega e il processo di La visione del sabba ritornano, in maniera parodica, ovvero quasi liberati dall’ossessione di quel primo film sulla stregoneria, proprio nell’ultimo titolo del regista, Sangue del mio sangue, presentato nel settembre 2015 alla Mostra del cinema di Venezia.
Anche Salto nel vuoto arriva a conclusione di una fase travagliata della sua carriera e della sua vita. Nel 1972, Bellocchio aveva posto fine  alla sua militanza diretta e attiva (aveva girato diversi documentari di propaganda politica) nell’Unione dei comunisti marxisti-leninisti, chiamati  in maniera spiccia “quelli di  Servire il popolo”, il loro giornale.

''Sbatti il mostro inprima pagina''La motivazione di quest’abbandono, che anticipava di qualche anno la fine dei sussulti rivoluzionari del Sessantotto, fu – secondo le sue parole – la non accettazione di un “esproprio” della propria personalità, anche artistica, da parte di quel partito e, in generale, di ogni movimento politico. Come rimedio “omeopatico”, dunque ancora fortemente legato alle istanze contestative, il regista gira tre film  in quattro anni: Sbatti il mostro in prima pagina (1972), Marcia trionfale (1976), e soprattutto, nel 1975, assieme a Silvano Agosti, Sandro Petraglia, Stefano Rulli, Nessuno o tutti/Matti da slegare. Quest’ultimo titolo fu quasi commissionato dalla provincia di Parma e dalla regione Emilia Romagna, istituzioni impegnate nella revisione radicale delle politiche costrittive riservate ai malati mentali. Come si sa, queste revisioni, sperimentate negli anni Sessanta dal celebre psichiatria Franco Basaglia nei manicomi di Gorizia e Trieste, aprirono la via alla Legge 180 che, nel 1978, chiuse definitivamente gli istituti psichiatrici.  

''Salto nel vuoto''Diventato, con gli anni, il più celebre documentario politico del cinema post bellico, Matti da slegare scavalcava il riferimento obbligatorio al celebre e discusso saggio di Deleuze e Guattari, L’anti Edipo-Capitalismo e schizofrenia, per diventare una vera e propria inchiesta filmica, già contagiata dalle forme giornalistiche del mezzo televisivo.
Di nuovo, la fuoriuscita da questa intensa pulsione anti istituzionale (i manicomi, le caserme-lager di Marcia trionfale, il giornalismo di regime di Sbatti il mostro in prima pagina) avviene attraverso una riflessione sul ruolo dell’artista e sulla sua ansia totalizzante. Il film principale di questa ennesima transizione è Il gabbiano, riduzione filmica da Cechov, certamente tra gli esiti migliori della sua carriera, a cui fa seguito un altro documentario, girato nuovamente assieme a Rulli, Petraglia e Agosti, e prodotto dalla Rai che lo programmò, in quattro puntate, nel 1978: La macchina cinema. Un viaggio nell’illusione, incarnata in coloro che sono rimasti ai margini della fabbrica dello spettacolo. Tra questi, anche Franco Piavoli, geniale cineasta di provincia che proprio Agosti porterà al successo pochi anni dopo.

I due ultimi titoli sono in qualche modo paralleli, anche se contrapposti – l’ansia artistica confina sempre, e spesso fa a pugni, con il bisogno di avere successo – e, successivamente, Bellocchio si ritira nella sua Bobbio, dove nacque il suo primo lungometraggio, I pugni in tasca.
Vacanze in Val Trebbia, il prezioso medio metraggio realizzato nel suo “buen retiro”,  assieme alla moglie Gisella Burinato e al figlio (entrambi appariranno poi in Salto nel vuoto), è un film di apparente riconciliazione con il mondo – la famiglia dovrebbe servire ad ammansire il proprio dolore esistenziale – segnato però, con quell’alternanza di ricordi pacificanti e di sogni turbativi, dall’eterno malessere del regista.

''Salto nel vuoto''Così, il ritorno al set “industriale” con Salto nel vuoto, che, assieme al successivo Gli occhi, la bocca, dovrebbe rappresentare un ponte solidissimo per approdare a nuove periodizzazioni filmiche, tradisce anch’esso vecchie e solide appartenenze, soprattutto attraverso le dichiarazioni d’intenti del regista. Bellocchio è contro Freud, che guarisce i “borghesi”, ovvero cerca di riportarli alla normalità e dunque non può capire la follia degli strati più bassi della società, quella appunto analizzata in L’anti Edipo, sorta di trattato filosofico-psicologico anti capitalista, oggi prudentemente messo da parte anche da coloro che lo esaltarono.
Dunque le patologie di cui soffrono apertamente i protagonisti del film, il magistrato Ponticelli e sua sorella Marta, entrambi non sposati e non legati affettivamente ad alcun partner, sono appunto tipiche di quella borghesia di provincia già raffigurata in maniera estrema nel suo film d’esordio. In qualche modo rappresentano un’estensione illimitata di quella mummificazione sociale e culturale, visto che il film è ambientato a Roma, città/provincia che racchiude il modo di vivere generale della classe media.

Il magistrato, interpretato da Michel Piccoli, già attore di riferimento di Buñuel e di Ferreri – e scelto non casualmente per la sua adesione totale ai mondi surreali dei due autori, ma ugualmente ben visibili anche come frammenti del mondo reale  – ha apparentemente interiorizzato il  suo malessere, sfogando ogni tipo di frustrazione nel proprio mestiere. Eppure, lo stesso malessere si scatena anche in piccole “eruzioni” quasi infantili: viene disturbato dalla presenza del bambino della governante e, successivamente, s’infuria perché lo stesso bambino si è appropriato di un prezioso volume della sua collezione di Topolino.

''Salto nel vuoto''La sua ultima indagine, ancora in corso, riguarda un caso di suicidio – una donna si è  buttata dalla finestra – che potrebbe essere rubricato come omicidio o almeno induzione al suicidio. Ponticelli conserva gli articoli dei giornali che hanno parlato di quel fatto in un faldone che racchiude altri esempi di “salti nel vuoto” che hanno provocato la morte degli aspiranti suicidi. Il faldone è, evidentemente, un’ossessione personale che va al di là del dovere inquisitorio. Ma intanto, il magistrato si deve occupare dell’inchiesta giudiziaria vera e propria: l’indagato è un giovane attore, Sciabola (Michele Placido), compagno della suicida, che rappresenta l’esatto opposto del suo inquirente. Sciabola è vitalistico, mentalmente libero, creativo, capace di imbrigliare con i suoi discorsi anche l’inappuntabile garante della legalità che si sente attratto da questa figura “altra”.
Ponticelli approfitta della situazione  per presentarlo alla sorella. Pensa di poter dominare l’inquisito attraverso la propria figura istituzionale, ma forse, con quella manovra distrae l’attenzione da se stesso per non essere troppo coinvolto in quella vitalità che gli fa paura.

La terapia del vitalismo, però, finisce per funzionare davvero. La sorella sembra lasciarsi alle spalle i suoi fantasmi, che, peraltro, fin dalle prime immagini, Bellocchio inserisce senza alcuna soglia di discontinuità, nelle immagini del presente: i bambini, cioè loro stessi, Mauro e Marta Ponticelli, scorrazzano tra le stanze, anche nelle camere da letto, durante la notte, e vengono visti dai protagonisti reali come  veri e propri specchi delle loro solitudini. Questa quasi citazione felliniana, peraltro rovesciata di segno (in Fellini trionfava la necessità e l’obbligo del ricordo vitalistico, e non l’ossessione di un passato turbativo), accresce il senso d’angoscia che si respira nella casa. Alla fine, il magistrato, prende atto che la sua manovra lo ha privato della protezione di Marta, rinchiudendolo maggiormente nella sua solitudine. Così  si toglie la vita, allungando l’elenco di coloro che sono “saltati nel vuoto”, senza che fosse possibile tracciare alcuna ipotesi sulle ragioni del loro gesto.

''Salto nel vuoto''Salto nel vuoto è l’ennesimo film di Bellocchio esplicitamente, e persino didascalicamente, legato alla “morte della famiglia”, o meglio alla sua uccisione reale e simbolica. Ovviamente non è la prima né l’ultima opera in cui compare, al negativo, la famiglia/istituzione/società/costruzione ideologica e ideale, chiave di volta dell’intera contestazione giovanile del ventennio Sessanta/Settanta, in cui appunto si afferma il regista piacentino e altri esponenti delle avanguardie filmiche di ogni parte del mondo. La famiglia di Ponticelli è però un “residuo”, ormai totalmente disgregato psichicamente, della vecchia e solida famiglia borghese. Il modello positivo – almeno nel senso comune del termine –  stabilizzato e normalizzato, è rappresentato, nel film, dai parenti  dei due fratelli. Questi appaiono durante i pochi cerimoniali tradizionali – un battesimo, soprattutto – ai quali partecipano Mauro e Marta, entrambi a disagio nel ruolo di parenti che non sono riusciti a creare – o che non hanno voluto creare – una famiglia normalizzata. La loro convivenza para familiare sembra quasi un resto della “strage” generale di I pugni in tasca (1965): Marta potrebbe essere una Giulia (che finiva paralizzata) e Mauro, Augusto, il borghese per antonomasia, mediocre e capace di sopravvivere a tutto.

Insomma, nella dialettica drammaturgica di Salto nel vuoto non c’è neanche più bisogno di una volontà omicida di tipo nichilista: basta la solitudine esistenziale o, più concretamente, l’idea che la follia sia “generata” – come afferma lo stesso regista polemizzando con le teorie freudiane – dalla stessa esistenza borghese. Siamo di nuovo all’Anti Edipo, anche se uno degli sceneggiatori del film, il già noto Vincenzo Cerami (Un borghese piccolo piccolo), a cui può essere attribuito proprio l’eccessivo didascalismo di un film comunque bello, dichiarò che nel film confluirono molti spunti legati alla biografia di Giovanni Pascoli e al suo rapporto morboso con le sorelle Ida e Maria. Come dire che non necessariamente le “biografie” poetiche degli artisti si appoggiano alla loro vita ma spesso a quelle degli altri, facendole proprie sul piano del rispecchiamento psicologico.

''Gli occhi la bocca''Però, proprio nel film successivo, c’è invece il tentativo di cancellare questi richiami turbativi al passato. Il film è Gli occhi, la bocca, titolo misterioso che si rifà a un gioco infantile. Venne presentato nel 1982 alla Mostra internazionale del cinema di Venezia. Protagonista quasi assoluto del film è Lou Castel, che dunque assume il ruolo di “icona” non simbolizzata ma piuttosto incarnata: era infatti il “matto” nichilista che stermina la famiglia (e poi muore lui stesso, abbandonato dalla sorella dopo un attacco di epilessia) in I pugni in tasca.   Bellocchio lo ripresenta come Giovanni Pallidissimi (si potrebbe scrivere un saggio semiserio sui nomi dei personaggi bellocchiani), un attore che ha avuto un certo successo dopo un celebre film che anticipava la contestazione anti familiare, ma che, successivamente, ha scontato il cosiddetto “riflusso”, ovvero la crisi del cinema politico. Quel film celebre viene citato apertamente, a metà del racconto, dalla locandina di I pugni in tasca (e si vede appunto Lou Castel) e quindi, in una sala d’essai, da alcune sequenze della stessa pellicola, alla cui proiezione, in un cineclub, assiste l’intera famiglia.

''Gli occhi la bocca''Castel/Pallidissimi, però, in una sovrapposizione finzionale o meglio uno slittamento biografico, tipico del  regista piacentino, torna a casa, a Bologna – città in cui è ambientato il film: non Bobbio, ma neanche Roma, che rappresenterebbe la rottura definitiva delle radici – per assistere ai funerali del fratello gemello, Pippo, che si è tolto la vita proprio nel giorno di Capodanno.
Ritrova la madre, sconvolta per l’accaduto. Il padre è anche qui assente, o meglio inesistente e il vero capofamiglia, lo zio, è interpretato di nuovo da Michele Piccoli, personaggio completamente diverso dal Mauro Ponticelli del film precedente. È infatti il modello del borghese che ha in cura ogni aspetto del decoro della famiglia tradizionale. Insomma, il “sorvegliante”, necessario a sbrogliare l’intreccio di accadimenti che stanno dietro il suicido di Pippo e che hanno lasciato tracce dolorose anche sul piano economico. Difatti il motivo, forse apparente, del suicidio è la rottura del fidanzamento con Vanda (Angela Molina), alla quale il ragazzo aveva anche intestato l’appartamento in cui in cui avrebbero dovuto abitare dopo il matrimonio. Figlia di un padre tirannico e nevrotico, in attesa di un figlio da Pippo, la ragazza finisce per sostituire il suo ex fidanzato con Giovanni, aumentando il caos familiare ed esistenziale che percorre il racconto.

''Gli occhi la bocca''In realtà, anche questo nuovo rapporto potrebbe essere interpretato come un’opposta sostituzione: non è Vanda che ritrova Pippo o un suo sosia, ma piuttosto Giovanni che, di nuovo, s’incarna nel fratello morto, quasi per abbandonare definitivamente i suoi personaggi che l’hanno reso celebre nella finzione cinematografica. Ed è sempre travestito da Pippo, vestito come lui, e segnato dalla cicatrice mortale sulla tempia – un’allusione alla verità/menzogna del cinematografo? – che si presenta, di notte, alla madre (una grandissima Emanuelle Riva), che vorrebbe rivedere in sogno il figlio suicida. Giovanni, però, scapperà dalla stanza  quando la sua trovata provocatoria sta per essere smascherata. Le due pulsioni sostitutive – che, ancora una volta, sono presenti anche in Sangue nel mio sangue – sembrano collocarsi oltre la finzione. Scomodando Freud, pur inviso al regista, le ossessioni e le visioni che punteggiano questo film bellissimo, provocatorio e totalmente immerso proprio nel mistero dell’identificazione dei personaggi, ricorda l’impossibilità della pacificazione mostrata in Vacanze in Val Trebbia. Ogni “addio al passato” è inutile: in Bellocchio tutto si tiene e tutto riappare di film in film.

6 aprile 2016

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