Percorso

Maccartismo e cinema

''L'ultima parola - la vera storia di Dalton Trumbo''

Memorie d'oltrecinema. Gianni Olla ci apre la sua cineteca per riscoprire grandi film che riemergono dal passato. L’ultima parola-La vera storia di Dalton Trumbo di Jay Roach (2016) - Il ponte delle spie di Steven Spielberg (2015) - The Majestic di Frank Darabont (2001) - Indiziato di reato di Irving Winkler (1991) - Il prestanome di Martin Ritt (1976) - E Johnny prese il fucile di Dalton Trumbo (1971) - L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel (1956)

Ho fatto a tempo a vedere, sia pure per caso,  L’ultima parola - La vera storia di Dalton Trumbo, programmato per un solo giorno in una multisala cittadina e non transitato, neanche per sbaglio, nei cinema d’essai. Il film, diretto da Jay Roach, è  basato sulla biografia Trumbo di Bruce Alexander Cook (tradotto in italiano con lo stesso titolo del film) e racconta la vita dello sceneggiatore statunitense Dalton Trumbo.

Ricco e famoso, Trumbo è stato l’autore di molti copioni diventati  film di successo e tuttora molto visti nelle programmazioni televisive: Vacanze romane, Spartacus, Exodus, Papillon. Sue sono anche le sceneggiature di due celebri opere di propaganda bellica, Joe il pilota (1943) e Missione segreta (1944), indirettamente riconducibili alla serie “Perché combattiamo”.
Proprio Vacanze romane, come pure La più grande corrida (1956), entrambi premiati con l’oscar per la miglior sceneggiatura originale, ebbero nei titoli di testa non il nome di Dalton Trumbo ma quello di due prestanome ai quali il vero autore corrispose una percentuale sulla vendita dei copioni.
Si stima che tra il 1948 e il 1960 lo scrittore organizzò una vera e propria agenzia di scrittura filmica, clandestina, in cui lavorarono una decina di sceneggiatori. Complessivamente non furono meno di cento i copioni con nomi fasulli che arrivarono in produzione e poi sugli schermi. La maggior parte appartenevano ai Bmovie e venivano pagati poche migliaia di dollari da produttori che, nel film, sono genialmente rappresentati da John Goodman, personaggio perfetto, quasi da film dei fratelli Coen, che si vanta di produrre “porcherie” che gli permettono di vivere allegramente tra sesso e denaro contante. Tre di questi titoli, La sanguinaria (1949), Ho amato un fuorilegge (1951), Cowboy (1958) sono poi diventati anch’essi famosi, pur senza il nome di Trumbo.

''L'ultima parola - la vera storia di Dalton Trumbo'' E ora è obbligatorio spiegare perché lo scrittore non firmò, o fu costretto a non firmare, la maggior parte dei suoi copioni: era un comunista e, a partire dal 1947, grazie alla Guerra Fredda contro  l’Unione Sovietica, i comunisti e, in genere, tutti coloro che esprimevano o avevano espresso idee più o meno vicine alla sinistra, soprattutto in ambito artistico e intellettuale o semplicemente comunicativo,  venivano messi in grado di non nuocere, inserendoli in una lista nera che li escludeva da ogni possibilità di lavoro creativo.  Tale pratica fu chiamata maccartismo, dal nome del suo sostenitore più oltranzista, il senatore Joseph McCarthy che, in realtà, cominciò ad essere famoso solo negli anni Cinquanta, quando la “caccia alle streghe”, anche a causa della guerra di Corea, combattuta contro un paese comunista, la Corea del nord, appoggiato anche da Cina e Unione Sovietica, era stata metabolizzata e digerita dall’opinione pubblica come una sorta di dovere civico. Non a caso proprio il termine “caccia alle streghe” fu inventato, nel 1953, dal drammaturgo Arthur Miller, anch’egli indagato, autore di un testo fortemente allegorico, Il crogiuolo, che faceva riferimento alla vera caccia alle streghe conclusasi tragicamente a Salem, nel Massachusetts, nel 1692. Fu appunto un’opinione pubblica isterica che spronò i censori e gli inquisitori a proseguire nel loro lavoro di “purificazione” della società americana dalle influenze comuniste.

Questa era la motivazione ufficiale delle battaglie maccartiste che, in maniera subdola ma neanche troppo nascosta, finivano per identificare – come denunciò il regista Billy Wilder – il comunismo vero o presunto anche in quegli strati di intellettualità ebraica “sdoganati” dalla crociata bellica antinazista. In questo non nascosto avvertimento alla cosiddetta lobby ebraico-comunista si trovarono incastrati anche alcuni tra i maggiori produttori hollywoodiani, appunto ebrei, ma certamente non comunisti, che ebbero paura di essere travolti dall’onda di piena maccartista e accettarono di licenziare  personaggi come Dalton Trumbo che certamente non poteva essere considerato un “sovversivo” o un attentatore della democrazia americana.
Il “clou” di questa isteria fu ampiamente spettacolarizzato attraverso le udienze pubbliche della Commissione parlamentare per le attività anti americane, riprese dalle televisioni e dai cinegiornali che, dunque, ne ampliavano la portata mediatica. Furono un centinaio i personaggi messi sotto inchiesta, quasi tutti famosi: tra gli altri, Gary Cooper, Bertolt Brecht, Joseph Losey, Charlie Chaplin, Orson Welles, Edward Dmytryk, Fred Zinnermann, Elia Kazan, Edward G. Robinson, Dashiell Hammett, Lilian Hellman, Abraham Polonsky, Jules Dassin, Robert Rossen e Walter Bernstein. Quarantasette di loro comparvero in udienza pubblica per confessare la propria appartenenza, passata o presente, al partito comunista americano, denunciando, nel contempo, i compagni di fede. Dieci rifiutarono di rispondere, ritenendo di essere protetti dalla Costituzione. Furono condannati per oltraggio alla corte. Scontarono  da sei mesi a un anno di prigione. Il più celebre di loro fu appunto Dalton Trumbo, e il film di Jay Roach mostra il personaggio che ritrova, in carcere il suo primo accusatore, John Parnell Thomas, condannato per evasione fiscale e gli si rivolge con moderata ironia: «Almeno lei è in prigione per un reato che ha commesso …».    

''Un bacio e una pistola'' Prima di questo film, l’ultima “novellizzazione” di quel pezzo  di storia degli Stati Uniti stava in uno dei migliori romanzi di Philip Roth, Ho sposato un comunista (1998), che rievoca le disavventure di attore radiofonico, ebreo, che arriva al successo nell’immediato dopoguerra per essere poi perseguitato, con l’avvento del maccartismo, come sindacalista ma anche come  militare che, durante la seconda guerra mondiale, trasportava autocarri e altre attrezzature militari e civili dall’Iran al confinante territorio sovietico.
Ma, giusto per spezzare una lancia in favore della democrazia americana e della possibilità di “redenzione”, tipica dell’immaginario statunitense, i film sul quel periodo travagliato non sono mai mancati: lo spettacolo deve andare avanti, sia distruggendo i “reprobi”, sia difendendoli.
Così, volendo analizzare le due diverse sponde filmiche del maccartismo (gli oppositori e i favorevoli), si possono citare alcune opere – il numero complessivo dei film a favore del maccartismo è, in realtà, altissimo e si può consultare solo su testi specializzati, prevalentemente americani –  emblematiche del clima di paura che la Guerra Fredda provocava nell’opinione pubblica. Nei due contenitori ideali, ci sono film facili da interpretare e altri molto più complessi, volutamente ambigui, giusto per non dispiacere ad alcuna tipologia di spettatore. Nella prima categoria inseriremo due “noir” molto amati dalla “nouvelle vague”: Mano pericolosa di Samuel Fuller e Un bacio e una pistola di Robert Aldrich, entrambi del 1953. Il primo è un pasticciato film di spionaggio che sembrava alludere al caso dei coniugi Rosenberg, due impiegati statali, iscritti al Partito Comunista e anch’essi ebrei, che furono condannati a morte e giustiziati nello stesso anno, con l’accusa di aver passato dei segreti militari all’Unione Sovietica.

Il secondo, tratto da un racconto di Mickey Spillane, mette in scena persino il furto di un arma segreta che dovrebbe alludere alla bomba atomica. Era infatti ipotizzabile e largamente credibile che l’atomica sovietica,  sperimentata positivamente a partire dal 1949, fu realizzata grazie al furto di segreti scientifici e militari da parte di spie mai individuate con certezza.
Nella categoria degli oppositori, la gamma interpretativa è  piuttosto contraddittoria. Ad esempio, il celebre film di fantascienza L’invasione degli ultracorpi (1956) firmato da Don Siegel, è storicamente identificato come uno dei film allegoricamente maccartisti. Eppure l’arrivo degli alieni che si sostituiscono agli umani – questa è, per semplificare, la trama – può essere facilmente ribaltata di significato: i cittadini inermi non sono minacciati dal comunismo ma dal maccartismo che li trasforma in pavidi automi. Allo stesso modo, uno dei capolavori di Elia Kazan, Fronte del porto (1954) può essere letto, senza alcuna difficoltà, come una denuncia della già avanzata, e documentata, infiltrazione mafiosa nei sindacati. Ma lo stesso Kazan, comunista che denunciò i suoi ex compagni, non esitò a dichiarare che il personaggio di Marlon Brando, testimone  tormentato dal dubbio, è in qualche modo una giustificazione del proprio tradimento nei confronti dei suoi colleghi. Però, proprio nell’ambito politico dei “liberals” (questo fu il termine che venne adottato negli Usa, dopo la vera e propria cancellazione di parole come sinistra, socialismo, comunismo), orfani del presidente Roosevelt, è inizialmente più semplice scovare le pellicole che si oppongono all’isteria anti comunista. Tre film, piuttosto famosi e tuttora visibili, documentano, infatti, il clima politico e culturale dell’immediato dopoguerra: I migliori anni della nostra vita (1946) di William Wyler, Anime ferite (1946) e Odio implacabile (1947) di Edward Dmytryk, quest’ultimo, non a caso, inserito nella lista nera e poi scagionato per aver denunciato, come Kazan, i suoi colleghi.

''L'invasione degli ultracorpi''I primi due raccontano l’odissea di alcuni reduci, tra i quali ci sono degli handicappati che non riescono a inserirsi nella società post bellica e vengono persino ostacolati da gruppi di cittadini sostenitori di una nuova guerra, contro un nemico molto più pericoloso della Germania: l’Unione Sovietica. Il terzo, sempre ambientato nel mondo dei reduci, finisce per mettere in scena un omicidio a sfondo razziale nei confronti di un ex militare ebreo.
Molto più tardi, quando il maccartismo diventò la “dottrina ufficiale” degli apparati governativi, gli oppositori dovettero trovare altri sistemi per “allertare” l’opinione pubblica. E dunque due film western “fuori schema”, La campana ha suonato (1954) di Allan Dwan e Mezzogiorno di fuoco (1952) di Fred Zinnemann, con il cittadino onesto lasciato solo in balia dei fuorilegge, dovrebbero obbedire a quest’allerta, che probabilmente non arrivò a destinazione. Così come accadde successivamente per L’invasione degli ultracorpi, entrambi i film, infatti, potrebbero essere ribaltati di significato: lo sceriffo assediato dai fuorilegge e abbandonato dai compaesani codardi, potrebbe anche essere il senatore McCarthy in balia dei criminali comunisti. Insomma, anche nel campo dei “resistenti” dominava l’allegoria. Così, si può facilmente  pensare che L’infernale Quinlan (1956), primo film girato da Welles dopo l’esilio europeo, determinato anche dalle minacce maccartiste, sia un film che ipotizza una possibile dittatura  nella quale la giustizia inappellabile di Quinlan, infallibile poliziotto, passa sopra ogni legalità formale e sostanziale. Insomma una lettura subliminale del pericolo del maccartismo che, secondo Francesca Borrione, ha altre importanti testimonianze filmiche, da Giorno maledetto di Sturges (1955) a Sentieri selvaggi di Ford (1956).

''Il prestanome''In ogni caso, per trovare dei film che ricostruiscono direttamente  quel periodo, occorre arrivare al 1976, quando Martin Ritt, assieme ad altri colleghi inseriti nella “lista nera” dai maccartisti (Walter Bernstein e Zero Mostel), si affidò a Woody Allen come protagonista del film Il prestanome. Il film raccontava sia le disavventure di  un cassiere (appunto Allen) divenuto improvvisamente ricco come “autore ombra” di copioni filmici di successo, sia quelle del personaggio di Zero Mostel, un grande comico ridotto a esibirsi in locali di provincia e poi suicida. Nello stesso anno, in Il maratoneta di John Schlesinger, il protagonista, Dustin Hoffman, sta scrivendo una tesi di laurea che tenta di riabilitare il padre, un professore, accusato di essere filo comunista, che si suicidò negli anni Cinquanta. Più recentemente, Indiziato di reato (1991) di Irvin Winkler, The Majestic di Frank Darabont (2001) e Good Night and Good Luck (2005) di George Clooney sono altrettanti esempi di opere che rileggono il maccartismo in maniera fortemente critica, se non accusatoria. Il primo, interpretato, tra gli altri, da Robert De Niro e Martin Scorsese (il suo personaggio è modellato sul regista Joseph Losey, che abbandonò gli Stati Uniti prima di essere convocato dalla Commissione Parlamentare), è la storia emblematica di uno scrittore, probabilmente Abrahm Polonski – coautore del film – che si rifiuta di collaborare e soprattutto di tradire i propri colleghi. Il secondo è quasi un film fiabesco, benché con una sottotraccia realista, illuminato da uno straordinario Jim Carey nei panni di uno sceneggiatore che, dopo un incidente stradale, si risveglia smemorato in un’idilliaca e tranquilla cittadina californiana. Qui viene scambiato per il proprio figlio  da Harry, un anziano genitore che attende ancora il suo ritorno dalla guerra. Lo scrittore accetta la finzione, o forse è ancora sotto choc, fino a che qualcuno non lo riconosce, in una vecchia foto apparsa sui giornali, come un inquisito e condannato dalla Commissione per le attività antiamericane. Ma, a questo punto, l’intera città, ovvero l’opinione pubblica che lo conosce come una persona per bene, la difende di fronte alle nuove accuse. Infine, il film di Clooney è una rigorosissima e filologica ricostruzione della battaglia che il conduttore della CBS Edward R. Murrow condusse negli anni Cinquanta proprio contro il senatore McCarthy, quando questi cominciò a pretendere che anche il mondo del giornalismo dovesse essere purificato dalle influenze comuniste.

Poiché questi ultime tre pellicole sono state girate dopo il 1989, ovvero dopo la caduta del Muro di Berlino, posso ricordare che, qualche anno fa, in un piccolo saggio che rievocava l’immaginario storico e soprattutto filmico-letterario della Guerra Fredda, scrissi che dopo il crollo del comunismo, in un ansia palingenetica che normalmente fa seguito al crollo dei grandi imperi, erano stati automaticamente cancellati dalla memoria collettiva e dalla riflessione molti argomenti “caldi” del dopoguerra. Tra questi, principalmente, il maccartismo, ma, in parallelo, anche il lunghissimo percorso del dissenso intellettuale dei paesi dell’est, Urss compresa,  molto più vasto e molto più tragico di quanto non sia stato negli Stati Uniti.
In realtà la mia presunta constatazione dell’eclissi memoriale della Guerra Fredda e dei suoi contorni culturali, era applicabile solo al vecchio continente che, privato dell’utopia comunista o di ciò che ne restava, tirò forse un sospiro di sollievo. Non è un caso che, mentre Il prestanome – anche in ragione della presenza di Allen come attore protagonista – ebbe un buon successo di pubblico, gli ultimi tre film citati sono stati quasi ignorati in Europa ed è difficile rivederli anche in tv o nell’home video. E ancora, non molti critici e pochissimi spettatori, non certo giovani, hanno messo in evidenza che il recentissimo e bel film di Steven Spielberg, Il ponte delle spie, è anche una riflessione intelligente sul maccartismo.

''Il ponte delle spie''La parte più riuscita della pellicola  riguarda infatti la personalità di un vero eroe americano: un avvocato di successo (Tom Hanks), difensore d’ufficio di una spia sovietica colta sul fatto a metà degli anni Cinquanta, che si batte affinché l’accusato venga trattato non come un nemico da distruggere, ma come un uomo, legalmente residente negli USA, che ha gli stessi diritti dei cittadini americani. Per questa sua sfida solitaria, e alla fine, vincente, avrà contro, come accade anche in La vera storia di Dalton Trumbo, non solo la stampa e il governo, ma anche i vicini di casa che minacciano l’incolumità dei suoi familiari.
Lo sfondo storico di questo film è reale e documentato: si tratta dell’affare dell’aereo spia U2, abbattuto dai sovietici in Crimea nel 1958, che portò allo scambio di prigionieri avvenuto nel 1961 a Berlino, appunto nel ponte delle spie, il  Glienicker Brücke che collega Berlino a Potsdam. Quell’episodio fu paradossalmente il primo segno della ripresa delle ostilità tra le due superpotenze, dopo il viaggio di Kruschev negli Usa, invitato dal presidente Eisenhower, nel 1959, a constatare di persona il benessere dei cittadini statunitensi. Difatti, proprio nel 1961, sorse il Muro di Berlino che chiudeva ogni possibilità ai cittadini di  abbandonare la Germania Est e gli altri paesi comunisti. L’anno dopo ci fu la crisi di Cuba che portò il mondo sull’orlo di una guerra nucleare.

Ed eccoci dunque dentro una guerra fredda ormai internazionalizzata e “riscaldata” quasi fino al punto critico. Anche in questo caso, un romanzo e un film simbolizzano la fine di un’era e del suo immaginario: La casa Russia di John Le Carre, apparso nel 1989 e portato sullo schermo nel 1990 dall’inglese Fred Schepsi. Soprattutto il film, sostenuto dal romantico venditore di libri interpretato da Sean Connery, ironizza sul “grande gioco” spionistico, organizzato da clan di super esperti che, in realtà, finiscono sempre per diventare uno stato nello stato, come si è poi visto con l’ascesa al potere di Vladimir Putin, formatosi nel KGB.
Venticinque anni prima, lo stesso Le Carrè, ex agente del servizio segreto inglese, aveva firmato il suo primo romanzo di spionaggio, La spia che venne dal freddo, tutt’altro che ironico ma piuttosto tragicamente realistico nel raccontare l’opposta indifferenza al fattore uomo delle spie occidentali e di quelle orientali. Anche questo film fu poi portato sullo schermo nel 1965 nientemeno che da Martin Ritt, autore di Il prestanome. Tutto si tiene in questa parallela storia delle persecuzioni interne nei confronti dei dissidenti e delle guerre di spie.

''L'ultima parola - la vera storia di Dalton Trumbo''Per tornare alla pellicola di Jay Roach, presto visibile nell’home video e in tv, sono tentato dal fare le pulci alla biografia proposta dal regista statunitense, che pure è appassionante e, sul piano della ricostruzione storica, credibilissima e simpaticamente piena non solo di tragedie, ma anche di dettagli ironici.
Provo a elencare alcune contraddizioni che non tolgono gran che al valore di un film importante, anche se piuttosto tradizionale come “biopic”.  Roach ha usato poco materiale documentario e ha preferito “ricalcarlo” in bianco e nero, usando gli stessi attori del racconto drammatizzato. Peccato. Avrebbe potuto far vedere e sentire le testimonianze degli altri inquisiti o testimoni, talvolta veri e propri “show” ad uso delle telecamere, o magari ripescare gli interventi di Richard Nixon, vice di McCarthy, alla sua prima apparizione politica, talmente importante da procurargli, nel 1950, la vicepresidenza con Eisenhower. Ed ecco, invece, un inesattezza: Trumbo, dopo aver scontato la pena, si rifugiò in Messico e solo lì, lontano dagli sguardi indiscreti dell’FBI, poté organizzare il traffico delle sceneggiature. Poco male l’essersi preso una piccola libertà sul piano biografico, ma, intanto, è evidente che quel vai e vieni dei copioni, presente nel film, sarebbe stato meno importante sul piano drammaturgico, proprio perché, nel film, funziona come una sorta di commedia surreale.
Il personaggio più riuscito è invece Hedda Hopper, ex attrice non troppo famosa (fece comunque 141 apparizioni, tra muto e sonoro) che, nel dopoguerra divenne un giornalista esperta in “gossip” capaci di favorire e stroncare carriere di attori e registi. Interpretata da Helen Mirren, che forse avrebbe meritato anche un oscar, è un po’ il prezzemolo – o la cicuta – del film: minacciosa e ricattatoria, anche nei confronti dei grandi produttori che hanno paura di perdere i loro collaboratori più validi, come appunto, Dalton Trumbo.

Appassionante e importante è invece l’incalzante finale da “arrivano i nostri” con David James Elliot che interpreta un burbero John Wayne, filo maccartista pietoso con i colleghi (sembra davvero una scena ispirata a Sentieri selvaggi), Dean O’Gorman/Kirk Douglas e Christian Berkel/Otto Preminger. Gli ultimi due, ritratti in maniera ironica, furono coloro che, nel 1960, decisero che il nome di Dalton Trumbo sarebbe apparso nei titoli di testa dei loro film, Spartacus (Douglas era il produttore l’attore principale del film di Kubrick) e Exodus. Non casualmente, Douglas proveniva da una famiglia ebrea-russa, Kubrick era figlio di ebrei austriaci, e Preminger un ebreo polacco-ucraino formatosi in Germania con Max Reinhardt, prima di fuggire negli Usa.
Invece, il confronto tra la “normalità” di Trumbo come sceneggiatore di genere – chi avrebbe mai pensato che un comunista potesse scrivere Vacanze Romane? – e il suo credo politico  non riesce a spiegare, nel film, le tante contraddizioni del mondo dello spettacolo hollywoodiano. Ovvero non mostra come la “fabbrica di film” avesse bisogno di intellettuali impegnati, informati e colti, rintracciabili con facilità nelle redazioni giornalistiche, nei teatri newyorchesi, nel mondo degli scrittori, molto spesso legati alle posizioni dei “liberals”, ma disposti ad accettare le lusinghe di Hollywood, che pagava bene e offriva una vita sociale che nulla aveva a che fare con le traversie della classe media o di quella operaia. Non è un caso che, tra le tante testimonianze degli inquisiti, pubblicate, anche in Italia (da Giuliana Muscio), se ne trova una di particolare sincerità: uno sceneggiatore, a cui era stato richiesto se aveva mai militato in organizzazioni politiche e sindacali appartenenti al mondo operaio, rispose che, stando a Hollywood, era ben lieto di non essere obbligato a frequentare la classe operaia, visto che era diventato un benestante. Forse è anche questa la ragione dell’accanimento degli inquisitori, quasi tutti uomini meschini che, dopo quell’esperienza, a parte Nixon, finirono i loro giorni nell’oscurità: attaccare Hollywood, uno stato nello stato, potentissimo e ricchissimo, era un modo per farsi pubblicità e sfogare il proprio accanimento nei confronti di personaggi più famosi di loro.

''Johnny prese il fucile''Trumbo è però passato alla storia del cinema e della letteratura non solo per i suoi successi come sceneggiatore popolare, ma anche per aver scritto Lettere dalla guerra fredda, una testimonianza straordinaria, in forma di epistolario, sul periodo maccartista, tuttora disponibile presso Bompiani. Nel catalogo della stessa casa editrice è presente anche il suo unico romanzo, E Johnny prese il fucile, scritto nel 1938, quando ancora non militava nelle file del Partito Comunista (prese la tessera nel 1943),  inneggiante al pacifismo senza se e senza ma. Unico, o quasi, protagonista è un soldato americano che perde gambe e braccia  nei campi di battaglia della Grande Guerra ed è ridotto ad un troncone immobile, ma pensante e lucidissimo, in un letto d’ospedale. Drammatizzato attraverso un monologo interiore per la radio nel 1941 (l’attore protagonista era James Cagney) fu ritirato dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour, e servì come capo d’accusa anche nelle udienze maccartiste. A partire dagli anni Sessanta  fu ripubblicato e ottenne un crescente successo.
Trumbo passò gran parte della sua vita a cercare di portarlo sullo schermo. Vi riuscì nel 1971, cinque anni prima di morire. Il film divenne un “cult” estremo e turbativo nei cineclub degli anni Settanta, prima di essere ingiustamente dimenticato.

L’ultima parola-La vera storia di Dalton Trumbo riattiva così anche la piccola memoria storica dei circoli del cinema cagliaritani e persino della Cineteca Sarda, visto che uno dei film in 16mm più gettonati dell’intero e ancora scarno catalogo era Il sale della terra, conosciuto anche come Sfida a Silver City, diretto nel 1953 da Herbert Biberman, un altro dei cineasti condannato per oltraggio alla corte e reduce da sei mesi di galera. Raccontava, in maniera asciutta e quasi brechtiana – il regista aveva lavorato a lungo in teatro e conosceva bene la scena europea, soprattutto quella tedesca e sovietica – di uno sciopero di minatori. Un film politico che permetteva di parlare anche del maccartismo.

20 aprile 2016

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