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''I cancelli del cielo'' (1981) di Michael Cimino

''I cancelli del cielo'' di Michael Cimino

Memorie d'oltrecinema. Gianni Olla ci apre la sua cineteca per riscoprire grandi film che riemergono dal passato. ''I cancelli del cielo'' (1981) di Michael Cimino

In apertura di stagione, al cinema Greenwich, è apparsa l’ultima edizione di I cancelli del cielo, il film “in-finito” di Michael Cimino, forse rimontato in extremis dal geniale e caotico autore statunitense scomparso alcuni mesi fa.

Questa versione dura 216 minuti, tre in meno rispetto alla copia che era stata presentata alla Mostra Internazionale del cinema di Venezia nel 2012. Dunque l’ennesima, rituale e forse abusata “director’s cut”. In quella veste era stata trasmessa, due anni dopo, dalla Rai, mentre altre edizioni, diverse e alternative, furono programmate in altre reti.
Insomma I cancelli del cielo è il film perfetto – più di quanto non sia stato Blade Runner, con le sue tante edizioni, approvate o meno da Ridley Scott – per analizzare l’incertezza di un testo cinematografico che, anche grazie alle odierne tecnologie digitali, può essere ricostruito filologicamente. Il che, paradossalmente, significa anche che le ricostruzioni non sempre sfociano nella chiarezza ma, più spesso, nell’indeterminazione della creazione cinematografica, come sempre è accaduto quando si è messo mano a pellicole dalla lavorazione travagliata, dal montaggio complesso, e soprattutto sottratte all’ultimo taglio (last cut) che, in teoria, spetterebbe al regista/autore ma che, spesso, e non solo nel cinema hollywoodiano, la legge assegna a chi mette i soldi, cioè il produttore.

Si può dunque cominciare da una brevissima cronaca delle diverse apparizioni del film di Cimino.
La prima è del 1980: I cancelli del cielo fu proiettato per i soli dirigenti della United Artists dallo stesso regista che, in silenzio e senza avere alcun “consigliere”, a parte il montatore, aveva passato qualche mese di fronte alla moviola. Questa prima versione durava cinque ore e mezza  – per la precisione 325 minuti – e come era facile capire fin da allora, non arrivò mai sugli schermi. I dirigenti della major ironizzarono su quella che, per loro, era solo una sorta di prova generale sganciata da ogni possibilità mercantile e chiesero al regista quando sarebbe stato possibile vedere un “final cut” degno di questo nome. Cimino non era in grado di opporsi, considerato che il budget per la realizzazione del film era passato da 7 a 44 milioni di dollari e c’era la necessità di recuperare queste somme in tempi brevi.

''I cancelli del cielo'' di Michael CiminoLa versione successiva, approntata in pochi mesi, durava 220 minuti. Fu approvata non senza mugugni e uscì in anteprima, nelle sale americane, pochi mesi dopo. Fu stroncata dalla critica e cancellata frettolosamente dalla programmazione pubblica. Una nuova edizione, questa volta sottratta al controllo del regista, fu ulteriormente ridotta di ottanta minuti, arrivando alle due ore e venti. Non si salvò da nuove critiche, opposte a quelle precedenti – chi ne aveva contestato il narcisismo estetico basato su piani sequenza infiniti, trovò il nuovo montaggio caotico e incomprensibile – e soprattutto andò incontro a un clamoroso insuccesso: 3 milioni di dollari incassati nel mercato statunitense.
Questa edizione ufficiale arrivò fuori concorso a Cannes nel 1981, suscitò nuove discussioni e polemiche infinite pro e contro il film e fu messa in programmazione nelle sale europee. Anche nel vecchio continente, però, non incontrò il favore del pubblico. Successivamente fu commercializzata, con un certo successo, per oltre vent’anni nell’home video – è ancora disponibile in Dvd – e poi programmata spesso nelle televisioni pubbliche e private. Sostanzialmente è questa versione apocrifa – a cui Cimino tentò vanamente di opporsi – ad essersi stabilizzata commercialmente. La piccola e inutile vendetta del regista si realizzò, nel 1982, alla Mostra del cinema di Venezia, quando fu recuperata, grazie ad un canale televisivo americano che ne aveva conservato la copia, l’unica versione approvata dal regista, quella da 220 minuti. Ebbe un clamoroso successo di pubblico e di critica (ma i festival non sono quasi mai indicatori di tendenze commerciali) e, due anni dopo, il film fu inserito in una “nottata” di Fuori Orario, tuttora ricordata da i cinefili italiani che hanno compiuto i cinquant’anni.

L’insuccesso di I cancelli del cielo non solo tolse ogni autonomia al regista, sottoponendo i suoi progetti al rigido controllo dei produttori, ma stroncò drasticamente la sua carriera. Dal 1980 al 1996, data dell’ultimo lungometraggio, piuttosto bello, Verso il sole, il regista italo americano diresse quattro soli film: L’anno del dragone, Il siciliano, Ore disperate, Verso il sole.
Se Orson Welles – ed è inutile fare confronti tra i due personaggi – nonostante i tanti fallimenti produttivi e i diktat da parte dei produttori, ci ha lasciato una consistente filmografia dove brillano numerosi capolavori assoluti, Cimino è stato un autore mancato. Non solo è incappato in una brutta avventura produttiva – per colpe anche sue – ma successivamente si è barcamenato tra progetti seriali, anche di qualità, e nuovi fallimenti: proprio Il siciliano, presentato recentemente in tv nella versione originale di quasi tre ore, è un’opera involontariamente comica che mitizza in maniera iper romantica il personaggio di Salvatore Giuliano. Simbolo di una inutile elefantiasi progettuale, mette in luce la sua grande maestria di regista e la sua ingenuità di autore che si affida, facendo di necessità virtù, ad un soggetto di Mario Puzo, finendo per costruire un terribile melodramma patinato.

''I cancelli del cielo'' di Michael CiminoEppure, dopo un apprendistato da sceneggiatore e un primo film di genere, piuttosto bello, Una calibro 20 per lo specialista (1974), interpretato da Clint Eastwood, il grande successo de Il cacciatore (1978) lo aveva proiettato in una dimensione profetica: l’autore che avrebbe dovuto dimostrare la definitiva “presa del potere”, a Hollywood, della generazione formatisi a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Su questa ipotesi, costruita a tavolino con il senno di poi, c’è stata, anche recentemente, dopo la ricomparsa di I cancelli del cielo, una sorta di critica complottista: le majors lasciarono briglia sciolta a Cimino per poi poter contemplare placidamente il suo annunciato fallimento commerciale che, inevitabilmente, lo avrebbe messo ai margini del mercato, o comunque in balia della volontà dei produttori. Ma questa teoria fa acqua da tutte le parti. La grande Hollywood era già stata “mutata” e trasformata in profondità dalla “presa del potere” di altri colleghi e coetanei di Cimino, da Coppola a De Palma, da Scorsese a Altman, senza contare il fenomeno Eastwood o i successi planetari di Spielberg e Lucas, registi in grado di “galleggiare”, anche con insuccessi e difficoltà, tra il mercato e la personalità autoriale, ma senza mai perdere la connessione obbligatoria con il pubblico, non solo statunitense.
Più semplicemente, Cimino, a cui la United Artists lasciò carta bianca, esagerò, come un vero autore deve probabilmente fare, ma senza pensare che il suo nuovo film avrebbe fatto fallire la United Artists, inserendo stabilmente il suo nome tra gli inaffidabili, ai quali andavano sempre controllati i progetti, le sceneggiature e soprattutto i montaggi finali.

Venendo finalmente all’oggetto film, I cancelli del cielo è un western storico che racconta la guerra degli allevatori dello Wyoming contro le migliaia di immigrati che, alla fine dell’Ottocento, dall’Europa dell’est, assieme alle loro famiglie, si erano riversate nell’ovest americano, occupando terre libere, vendute dal governo federale a prezzi stracciati. La definizione di western storico, pur considerando l’essenza mitologica del genere più celebre del cinema americano, non è, in questo caso, un ossimoro. Piuttosto è una voluta sintesi di tutto ciò che, secondo Cimino, dovrebbe farne parte: storia, leggende, personaggi reali e di fantasia, ma soprattutto sintesi di ogni modello drammaturgico e narrativo: melodramma amoroso e avventura, rivalità e amicizie, duelli e battaglie campali. Mancano solo i pellerossa, assenti giustificati, come si vedrà.

Riprendendo e amplificando la struttura narrativa de Il cacciatore, la pellicola si apre con una festa: siamo nel 1870, a Harvard, Boston, durante la cerimonia che conclude l’anno accademico. Il rettore, un pastore puritano interpretato da Joseph Cotten, ha pacatamente incitato i neo diplomati a seguire la loro vocazione verso il bene collettivo e nazionale, visto che gli Stati Uniti hanno soprattutto bisogno di conoscenze e cultura; i giovani harvardiani, prima silenziosi, ascoltano con maggior entusiasmo il loro collega, Irvin, un alcolista ironico e colto, che ha il volto e la maschera tragica di John Hurt. Il suo discorso può essere sintetizzato all’estremo, proprio in contrapposizione all’obbligo morale accennato dal reverendo: si può cercare di ottenere il massimo, ma ci si deve accontentare di ciò che si riesce a fare.
Alla fine della cerimonia ufficiale gli studenti si scatenano in un corteo festoso che accoglie le loro famiglie e le loro fidanzate, alle quali è destinata anche una serenata, prima del ballo all’aperto, nel giardino del college, che conclude la lunga sequenza. Tra i tanti personaggi si distingue soprattutto James Averill, interpretato da Kris Kristofferson, protagonista del film.

''I cancelli del cielo'' di Michael CiminoLa caratteristica di questo lungo prologo è, ad un tempo, un segno poetico personale – come già accadeva nella cerimonia nuziale di Il cacciatore  – che riguarda una sorta di ideale destino trionfale per le giovani generazioni, pronte a riprendere la conquista del west per creare la nazione americana. E non a caso, i due discorsi ufficiali che aprono il film si collocano agli estremi opposti delle due pratiche ideali che si fronteggiano nel seguito del film: quella del reverendo è illusoria; quella di Irvin non basta a fare trionfare il bene, ma solo a compatirsi per non aver fatto il proprio dovere.
 Va anche sottolineato che, come aveva mostrato Martin Scorsese in L’età dell’innocenza (1993), sulla scia del romanzo di Edith Warthon, il lungo e spettacolare walzer di Strauss che accompagna le coppie sul prato – quasi un ballo dei e delle debuttanti –  sottolinea la nascita o la definitiva affermazione di una nuova aristocrazia WASP, formata dai vincitori nordisti della guerra civile. Il bel Danubio blu, rallentato al massimo, ritornerà come commento musicale extra diegetico, prima della fine. Dopo le traversie belliche dei protagonisti si spegne anche l’ideale romantico.
Ancora più evidente è il segno formale e stilistico di questo prologo: una sorta di insieme scenografico e trionfalmente coreografico,  che i lunghissimi piani sequenza esaltano a dismisura. Il mito ha bisogno della spettacolarità e Cimino è sicuramente un maestro in questa affascinante messa in scena  della presa del potere di una nuova classe dirigente.
Di nuovo, come in Il cacciatore, anche in I cancelli del cielo non c’è una cesura netta tra l’introduzione e il vero e proprio racconto, montato in continuità con l’ultima inquadratura del prologo. Solo che il tempo storico, in questo caso, è cambiato: ritroviamo infatti i personaggi principali, vent’anni dopo, nella città in piena espansione di Casper, un nodo ferroviario importante, caotico, già caratterizzato dalla presenza di industrie di trasformazione, probabilmente di carne in scatola, che inquinano ogni angolo della città: la modernità statunitense avanza verso il nuovo secolo travolgendo gli ultimi frammenti della infinita frontiera verso l’ovest.
Averill è, appunto, un sceriffo federale che dovrebbe riportare l’ordine in una zona, la Contea di Johnson, ai margini estremi dello Wyoming, sotto le montagne rocciose. Qui, le molte migliaia di immigrati hanno  creato anche una piccola e miserabile città, Sweetwater (il nome è lo stesso della stazione/villaggio che dovrà essere costruita in C’era una volta il west di Leone), sono in conflitto con i ricchi e potenti baroni del bestiame organizzati nella Wyoming Stock Growers Association; i nuovi arrivati a volte rubano vitelli e manzi per necessità e vengono uccisi dai pistoleros al soldo degli allevatori.

In questo suo difficile  compito, Averill si trova contro un amico, Champion (Christopher Walken), ma soprattutto l’intera associazione degli allevatori. Il  suo presidente, Frank Canton (Sam Waterson), anch’egli ex studente e Harvard, osteggiato dall’amico Irvine, divenuto avvocato, ha assoldato un centinaio di vigilantes senza scrupoli e si appresta scatenare una guerra vera e propria per eliminare fisicamente i coloni che vengono considerati responsabili dei furti di bestiame. Ma i ricercati, e la sottolineatura è importante, vengono definiti anche dei pericolosi anarchici, cioè – come accadeva in Europa dopo i  numerosi regicidi della fine dell’Ottocento e dei primi anni del nuovo secolo – degli attentatori alla sicurezza degli stati.
In questa seconda parte il racconto si arricchisce di micro drammaturgie, non sempre interamente dominate dal regista. Una di queste riguarda Ella (Isabelle Huppert), tenutaria di un bordello che si arricchisce acquistando il bestiame rubato; la ragazza è oggetto anche di un conflitto sentimentale tra Champion e Averill, che accresce la loro rivalità dovuta al diverso schieramento in quella che si annuncia come una vera resa dei conti. Un’altra microdrammaturgia  è la solidarietà tra Averill e Irvine, uomo incapace di sottrarsi al dominio dell’alcol e della paura: un “fool” shakespiriano che, progressivamente, diviene purtroppo un personaggio involontariamente caricaturale; infine, è assolutamente centrale il conflitto feroce tra Averill e  Canton.

''I cancelli del cielo'' di Michael CiminoGli unici momenti di nuovo unitari, e soprattutto costruiti con la stesso stile avvolgente della prima parte, riguardano la vita e soprattutto lo svago degli immigrati, cioè i balli e le riunioni che avvengono in un grande locale, costruito al centro del villaggio, che dà il titolo al film: Heaven’s Gate. La traduzione letterale, “la porta del cielo” è anche il simbolo di un nuovo mondo libero e portatore di ricchezza  per tutti coloro che arrivano in quello stato del nord ovest. Però fuori dal locale e anche dentro, visto che vi sono dei dormitori che ospitano i nuovi arrivati, ricchezza e felicità non sembrano alla loro portata: la maggior parte degli immigrati vivono nella miseria più nera.
Anche in questo caso, lunghi piani sequenza stabilizzano l’idea di una comunità separata – ma già con una classe media di mercanti e artigiani che vorrebbero consegnare i presunti fuorilegge a Canton, pur di essere lasciati in pace – in cui si sentono le lingue europee dell’est, dal tedesco al russo, dall’yddish al polacco. Va anche aggiunto che, se si mettono in conto tutti i (pochi) film girati dal regista, l’origine etnico-nazionale dei personaggi assume una valenza importantissima, quasi una poetica che serve a rafforzare una sorta di ricerca d’identità. Il regista di origine italiana, com’è evidente dal suo cognome, non raffigura un melting-pot unitario, forse esclusivamente mitologico, ma piuttosto seleziona i diversi americani che hanno creato, passo dopo passo, la nazione: in Il cacciatore erano i russi ortodossi, in L’anno del dragone, il capitano di polizia polacco contrapposto alla comunità cinese; in Il siciliano, un abusivo ritorno alle proprie radici; infine, in Verso il sole, il richiamo ai nativi, prima massacrati e poi messi ai margini: i pellerossa.

La terza e ultima parte – la più lunga delle tre  – racconta e mostra, con un’epica trascinante e concitata che richiama Peckinpah e, di nuovo, Leone, lo scontro finale tra le bande degli immigrati che assaltano i vigilantes protetti dall’esercito.
A proposito del finale c’è anche chi ha ipotizzato, negli Usa ma più spesso in Europa, che l’ostilità critica e forse spettatoriale verso il film fu dovuta anche a questa presa di posizione storico-politico: gli Stati Uniti sono diventati una nazione, guidata da una minoranza WASP – cioè quella che, nella prima parte, si diploma a Harvard – che ha dominato e talvolta massacrato le altre popolazioni, vecchie (i pellerossa) e nuove (neri africani, immigrati europei, ispanici, cinesi). Magari è vero, e coloro che hanno espresso l’opinione riportata sopra citano autorevoli interventi di magistrati e politici che attaccarono il film proprio per la sua cruenta e negativa esposizione storica. Ma pure I cancelli del cielo, sul piano politico, non è molto diverso da tanti film western che raccontano le stragi indiane (Piccolo grande uomo, Soldato blu), il Vietnam, la Guerra Fredda, la Guerra civile. Non è misurando il numero dei morti o i litri di sangue finto – alla Tarantino, per intenderci – che si accerta il tasso di politicità o di storicità di un film.
Semmai, è a partire da certi eccessi e certe confusioni drammaturgiche, che si può giustificare il fallimento annunciato de I cancelli del cielo.

''I cancelli del cielo'' di Michael CiminoA questo punto posso confessare il rovello di un critico – che riguarda questo e altri film – diviso tra l’ammirazione per il regista e la consapevolezza che il rifiuto del film da parte di altri critici e soprattutto degli spettatori, abbia avuto solide motivazioni che non riguardano né la sociologia né la storia. In termini tecnici, il contrasto riguarda l’opposizione che fortunatamente non sempre esiste, tra il dovere dell’analisi filmica e “il piacere del testo” – la definizione è di Roland Barthes –  ovvero la possibilità che, in chiave critica e soprattutto spettatoriale, prevalga la fascinazione della regia iperbolica di Cimino. Per intenderci, personalmente, avrei piacere di vedere – e ciò, probabilmente, non accadrà mai – la versione iniziale presentata nel 1980 ai produttori, giusto per immergermi maggiormente nel suo modo di fare cinema risucchiando lo spettatore  dentro il film. Ma questo desiderio corrisponde anche ad un’altra esigenza, di tipo analitico. Nelle ricostruzioni critiche si è sempre precisato che i tagli imposti dalla produzione sono stati di tipo chirurgico, magari molto invasivi – la battaglia finale durava quasi due ore ed è stata dunque dimezzata –  ma non hanno riguardato episodi o capitoli del film la cui scomparsa avrebbe sicuramente alterato la comprensione della trama. Questa ricostruzione è in parte verificabile nella versione trasmessa su Raimovie: le parti ripristinate da Cimino hanno i sottotitoli e sono, in larga misura, proprio degli tagli chirurgici alle sequenze che, nella versione breve (si fa per dire: durava comunque centocinquanta minuti) provocano una sorta di cancellazione del respiro ampio delle riprese e una concitazione narrativa abbastanza estranea allo stile di regia di Cimino.

Ma il sospetto che questa ricostruzione sia in parte falsa deriva soprattutto dalla lunghissima ellisse temporale che divide la prima dalla seconda parte. Dopo vent’anni, Averill riappare, come un personaggio di Dumas, nelle vesti di un semplice sceriffo federale mentre molti suoi colleghi sono diventati imprenditori, proprietari di terre e mandrie, avvocati, uomini politici, magistrati. Il dubbio è rafforzato dall’epilogo finale, con un’ulteriore cesura che fa seguito al massacro. Averill riesce a scamparla e, in una breve sequenza che ha una precisa temporalità (il 1903) e spazialità (Rhode Island, vera e propria enclave WASP), lo vediamo a bordo di un yacht lussuoso, di cui è probabilmente il proprietario. Accanto a lui, sotto coperta, sta una donna, la moglie, ovvero la  fidanzata che abbiamo visto nella festa a Harvard e che, in una foto realizzata nel giorno delle nozze, appare brevemente, per ben tre volte, tra i bagagli del protagonista a Sweetwater, come fosse obbligatorio ricordare che il personaggio ha appunto un passato da marito borghese, esemplare o meno.

''I cancelli del cielo'' di Michael CiminoOltre a questa notazione, gli accenni puramente verbali che compaiono nella seconda parte del film, dovrebbero colmare i vuoti temporali: di Averill si dice che è ricchissimo ma si atteggia a povero; che è stato espulso dall’associazione degli allevatori per indegnità; che ha lavorato a lungo a S. Louis, nel Missouri, altra terra di allevatori, e che aveva una banca, poi fallita. Insomma, a mettere assieme questi indizi, la sua figura è un classico del cinema americano d’avventura, oltre che western: Averill è un “loser” volontario, un perdente che ha scelto la sua dannazione, voltando le spalle alla sua classe sociale. Fallito anche in questo ruolo, ritorna alla sua classe, alla sua moglie, alla sua ricchezza.
Ora, il cinema contemporaneo, a partire dalle “vagues” degli anni Sessanta – epoca in cui si è formato anche Cimino – ha abituato lo spettatore, almeno quello più avvertito, a indeterminazioni narrative e temporali arditissime, ma sorge comunque il dubbio che il “buco” dei vent’anni sia in qualche modo tra gli ingredienti meno digeriti dal pubblico e dalla critica, così come il finale. Ed entrambe le cesure fanno sospettare che già nel primo taglio imposto dalla produzione, siano state sacrificate importanti sequenze di raccordo tra i diversi tempi storici ed altre di necessaria esplicitazione del percorso esistenziale del protagonista.
Tanto più che, considerato l’ambizione storica del film, tra il 1970 e il 1990 accaddero molti fatti interessanti nel veloce cammino degli Stati Uniti verso il trionfo del nuovo secolo. Uno di questi, avvenuto negli anni Ottanta, riguarda le guerre indiane, conclusasi con la sconfitta e le deportazione delle popolazioni Sioux. Saranno i loro territori ad essere occupati dalla seconda grande ondata migratoria proveniente in larga misura dall’est Europa, dopo la scelta del governo di assegnare le terre libere ai coloni. Ma questa decisione, che apriva l’ultimo atto della corsa all’ovest, ovvero dell’estensione della frontiera, entrò in conflitto con le esigenze dei grandi allevatori di bovini che rifornivano di carne i grandi mercati dell’est. La guerra  della contea di Lincoln non fu l’unica ad insanguinare i nuovi stati americani e non fu dovuta alle ruberie per fame degli immigrati poveri, ma piuttosto al bisogno degli allevatori di avere quelle pianure sconfinate libere da recinti e da colture agricole. Non è un caso che uno dei coloni, in un eccesso alcolico, inneggi al filo spinato come garante della libertà: un ossimoro, questa volta autentico, facilmente spiegabile proprio con la necessità di proteggere le loro proprietà, ottenute regolarmente, dall’insaziabile voracità dei padroni di mandrie.

Il tema – recinti contro pascoli liberi – fu davvero terreno di scontro nella corsa all’ovest e la sua importanza, anche mitologica e non solo storica, è testimoniata da altri film western, noti e meno noti. Dunque quei vent’anni di grandi eventi storici e economici avrebbero potuto essere lo scenario di riferimento di una carriera mancata, che però, nel film di Cimino, ha pochi riscontri testimoniali, se non il finale.
Questa sottrazione di un più deciso e efficace tempo storico, in realtà, sposta l’attenzione, nella seconda parte, alle varie isole drammaturgiche di cui è composto il racconto e alle quali ho fatto cenno nelle righe precedenti. Così, di nuovo, ci si può chiedere se una maggiore o esclusiva concentrazione sulla comunità di immigrati non avrebbe giovato alla narrazione, tanto più che sono proprio queste parti che mettono in evidenza la grandissima qualità della regia di Cimino. E, allo stesso tempo, all’ellisse storico-temporale si contrappone l’infinita durata della battaglia, che ha un finale strepitoso, con i carri – da guerra, come intuisce un ufficiale dell’esercito statunitense che guida i vigilantes e che conosce la storia romana – corazzati da tronchi d’albero e spinti all’assalto delle postazioni nemiche, dando vita a tutta la gamma di azioni tragiche e eroiche che hanno sempre punteggiato i film bellici, anche quelli ambientati nell’ovest americano.

''I cancelli del cielo'' di Michael CiminoInsomma, se il genere – il western, sull’orlo dell’estinzione, salvo riapparire come una sorta di museo vivente del mito a partire dagli anni Novanta – non era proprio adatto a conquistare un pubblico che aveva voglia di contemporaneità, il modo di far cinema di Cimino, virtuosistico fino al narcisismo, mal si adattava ai tempi veloci e alle spettacolarizzazioni dei nuovi film d’avventura già sulla strada del recupero delle attrazioni visive anziché delle narrazioni articolate mutuate dal grande romanzo ottocentesco.
Queste righe, in sintesi, possono essere l’inizio di un’analisi critica. Resta il fatto che ho rivisto, in una sala – finalmente – il film e  mi sono di nuovo appassionato per la facilità con la quale il regista mia ha trascinato nella vertigine scenica o anche nella seduzione ipnotica del ballo tra Averill e Ella. Avviene nei grandi spazi vuoti dell’Heaven’s Gate, è ritmato da una musica che  mescola Europa orientale e folclore americano – ma forse sono la stessa cosa: un “melting pot” riuscito che ricalca, con diverse orchestrazioni, la bellissima e malinconica colonna musicale del film – e cita esplicitamente il ballo quasi religioso di Sfida infernale di John Ford, moltiplicandone per cento l’effetto scenografico e coreografico. Proprio quella bellissima e lunghissima sequenza romantica segna il massimo dell’eccesso stilistico, dal quale dovrebbero guardarsi tutti i regista, soprattutto quelli più bravi, come Cimino. Ovviamente, ai grandi maestri, soprattutto se sfortunati o semplicemente troppo arditi, si perdona tutto, in nome della bellezza e del fascino delle immagini. Se così non fosse, ci dovremmo accontentare sempre di film normali, seriali, prevedibili.

''I cancelli del cielo'' di Michael CiminoElla Watson, tenutaria di un bordello che accetta bestiame rubato come pagamento per l'uso delle sue prostitute, è infatuata sia di Averill che di Champion. Averill ed Ella pattinano in mezzo alla folla, e poi ballano da soli, in una enorme pista di pattinaggio chiamata Heaven's Gate, costruita dall'imprenditore locale John L. Bridges. Averill ottiene una copia della lista nera dell'associazione da un capitano dell'esercito americano e legge i nomi ad alta voce ai coloni, che cadono in preda allo sconforto terrorizzati. Cully, un capostazione amico di Averill, vede il treno con i mercenari di Canton in direzione nord e cavalca per avvertire i coloni, ma viene ucciso. Più tardi, alcuni uomini si recano al bordello di Ella e la violentano. Averill arriva e li uccide tutti tranne uno, che fugge. Champion, rendendosi conto che i suoi capi vogliono uccidere Ella, va al campo di Canton e spara allo stupratore rimasto in vita, poi si rifiuta di partecipare al massacro.
Canton e i suoi uomini vanno allora alla capanna di Champion, e danno luogo a uno scontro a fuoco. Nel tentativo di salvare Champion, Ella arriva col suo carro e spara a uno dei mercenari, prima di fuggire a cavallo. Champion e i suoi due amici vengono uccisi in una massiccia sparatoria, che si conclude con l'incendio della sua capanna. Watson mette in guardia i coloni sull'arrivo di Canton in un altro grande, caotico raduno nell'Heaven's Gate. Gli agitati coloni decidono di combattere; Bridges conduce l'attacco alla banda di Canton. Con gli invasori ora circondati, entrambi i lati subiscono perdite (tra cui un ubriaco e poetico Irvine) mentre Canton lascia il campo di battaglia per lanciarsi alla ricerca di rinforzi.
Ella torna alla capanna carbonizzata di Champion, dove scopre il suo cadavere, con una lettera in cui documenta i suoi ultimi minuti da vivo. Averill la raggiunge e, dopo aver letto la lettera, si unisce a malincuore, con le loro rudimentali macchine d'assedio e cariche esplosive. Il giorno dopo ha luogo l'attacco contro gli uomini di Canton e le loro fortificazioni di fortuna. Anche in questo caso ci sono pesanti perdite da entrambe le parti, prima che l'esercito degli Stati Uniti, con Canton in testa, arrivi a fermare i combattimenti e salvare i restanti mercenari assediati.
Più tardi, alla capanna di Ella, Bridges, Ella ed Averill si preparano ad andarsene per sempre, ma vengono attaccati da Canton e altri due uomini, che sparano a Bridges ed Ella, uccidendoli. Dopo aver ucciso Canton e i suoi uomini, un addolorato Averill tiene il corpo di Ella tra le sue braccia.
Più di dieci anni dopo un aristocratico ma più anziano Averill passeggia sul ponte del suo yacht al largo di Newport, nel Rhode Island. Va sottocoperta, dove un'attraente donna di mezz'età sta dormendo in un boudoir di lusso. Averill la guarda, senza dire nulla. La donna, che è la sua vecchia fidanzata di Harvard (forse ora sua moglie), si sveglia e gli chiede una sigaretta. In silenzio, Averill l'accontenta e ritorna sul ponte.

''I cancelli del cielo'' di Michael CiminoIl secondo fu l’appartenenza ad un genere ormai estinto, il western, il cui travestimento storico – i fatti raccontati stanno nelle cronache del tempo – non poteva riscattare la mancanza di interesse da parte del pubblico per quella mitologia ormai più lontana di quella omerica. Il terzo, la confusione narrativa, lo sviluppo temporale abnorme, le tante piste drammaturgiche e sceniche (storia d’amore, rivalità, stragi, scene spettacolari, scenografia e luci ricercatissime) che distraevano lo spettatore.
Per farla breve il film, che alcuni critici definirono il Moby Dick del cinema – anche in ragione della sua sanguinosa e crudele allegoria  della storia americana – fu un fiasco, fece fallire la United Artist, e costò la carriera a Cimino, che mai più tornò al successo, e che firmerà in oltre trent’anni di carriera solo quattro regie, lasciando sulla carta una ventina di progetti che nessun produttore era disposto a finanziare.
Come molti titoli di Welles, “I cancelli del cielo” è rimasto uno di quei titoli molto “chiacchierati” e poco visti, se non nella versione per l’home video, tuttora in vendita e spesso trasmessa in tv, la cui durata è dimezzata rispetto all’originale. Tra i “cinephiles” italiani c’è un continuo scambio di informazioni su quale versione sia possibile rintracciare clandestinamente. Infatti, la versione di 330 minuti fu trasmessa nella rubrica Fuori orario una sola volta, e poi sparì. Quella proposta e restaurata da Cimino – e dunque indiscutibile – è, ancora una volta, mutilata, però il rimontaggio è opera del suo autore, dunque autentica.

26 ottobre 2016

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