Percorso

Le epiche sfide tra Far West e lontano Oriente

''I magnifici sette'' di Antoine Fuqua

Memorie d'oltrecinema. Gianni Olla ci apre la sua cineteca per riscoprire grandi film che riemergono dal passato 

Non farò molti rilievi critici sulla nuova versione de I magnifici sette firmata da Antoine Fuqua. In parte perché questo spazio, gentilmente messomi a disposizione dai responsabili della rivista, è stato destinato ad una sorta di viaggio nel passato, mio e dei film sui quali mi soffermo; in parte perché, rispetto ai tanti e inevitabili “remake” (l’ultimo, passato quasi inosservato, è The Revenant di Inarritu, rifacimento quasi esplicito di Uomo bianco va col tuo dio, diretto nel 1971 da Richard Sarafian), della vecchia trama di I magnifici sette di Sturges non è rimasto molto: ovviamente il numero degli eroici combattenti che, nel manifesto, vengono indicati con un grande 7 in cifre; poi la musica di Elmer Bernstein nel finale, sorta di omaggio extra testuale al maestro di tanti film hollywoodiani, tra i quali appunto il vecchio film di Sturges; e quindi, qualche richiamo alle psicologie dei vecchi protagonisti.

I nuovi eroi, però sono stati schierati da Fuqua come una sorta di esposizione museale e fantastorica del politicamente corretto, almeno dal punto di vista statunitense, e di un “melting-pot” finalmente riunificato. A capo della spedizione c’è infatti un nero – delegato di giustizia, ovvero cacciatore di taglie – interpretato da Denzel Washington, che può essere indicato come l’alter-ego del regista, anch’esso nero. Accanto a lui un pellerossa, un asiatico, un ex soldato confederato, un boscaiolo che dovrebbe essere irlandese, un messicano ricercato per omicidio e un autentico WASP, la cui provenienza serve forse ad assolvere il rapace capitalismo del cattivo che, parole sue, definisce la democrazia come la legge del più forte e del più ricco, secondo un’ottica perfettamente puritana.

''I magnifici sette'' di Antoine FuquaL’ottavo magnifico, infine, non contabilizzato, è una donna, vedova di un povero colono ucciso dai “cattivi”, che si espone non solo affidando al delegato di giustizia l’incarico di difendere gli abitanti di una pacifica cittadina di allevatori e agricoltori dalle mire di un magnate minerario, ma che finisce per prendere il fucile e usarlo con molta maestria.
Insomma, la vicenda è riscritta da capo, ma è comunque radicata nella tradizione del cinema western, statunitense e italiano. Stilisticamente, infatti, il film di Fuqua ha inizio con un ricalco delle atmosfere e delle lentezze rituali dei film di Leone e prosegue, nella seconda parte, citando i classici hollywoodiani. Così l’interesse per questo titolo è di nuovo un viaggio in un passato non troppo remoto che unisce gli intrecci  storico-critici e quelli personali.
Secondo l’IMDB, il vecchio I magnifici sette uscì in Italia nel 1961, seguito, nel 1966, dal meno famoso Il ritorno dei magnifici sette di Burt Kennedy, non certo all’altezza del primo titolo. Nel 1972, infine, venne prodotto un altro sequel, peggiore del primo: I magnifici sette cavalcano ancora di George McCowan. Suppongo di avere visto il film di Sturges, in compagnia di mio padre, nello stesso anno della sua presentazione, o l’anno successivo, e poi altre volte, da solo o in compagnia, visto che i film più popolari, in particolari quelli statunitensi, venivano replicati spesso, magari d’estate, nei cinematografici di seconda e terza visione.

''I magnifici sette''Da allora ha fatto parte  di una lunga lista di film western  di cui ricordo, quando li rivedo in tv, dialoghi e scene con molta precisione, nonché i nomi dei protagonisti e i loro interpreti. Restringendo al massimo questo catalogo, le altre pellicole sono Winchester 73 (1950) di Mann, Il cavaliere della valle solitaria (1953) di Stevens, Vera Cruz di Aldrich (1954), Un dollaro d’onore di Hawks (1959), e La battaglia di Alamo (1960) di John Wayne.
Paradossalmente, anche volendo allungare l’elenco, non trovereste alcun film di John Ford che oggi ritengo non solo uno dei più grandi registi della storia del cinema, ma anche il maggiore rappresentante del western, ovvero l’Omero della mitologia della frontiera, come avrebbe potuto scrivere Borges, che riteneva – purtroppo, aggiungeva – quel genere cinematografico l’unico erede novecentesco del mito classico. Credo ci sia anche una ragione specifica che giustifica la lunga memoria di quei sei titoli: sono strutturati come film d’avventura, segnati da un obbligo morale che riguarda gli eroici protagonisti ma, nello stesso tempo, permeati non solo di una drammaturgia complessa che sfuma l’eroismo in mille rivoli pieni di contraddizioni.

''I magnifici sette''Il vecchio I magnifici sette, non  a caso, è già un film con una complessità psicologica da western crepuscolare. Dal canto suo, Vera Cruz – come scriveva Truffaut – è un vero capolavoro di ambiguità che mostra apertamente la simpatia nei confronti dei ribaldi. Tutti, infine, sono immersi in un’atmosfera picaresca. Magari oggi non mi entusiasmerei per le “non buone ragioni” dei texani che vogliono impadronirsi di un territorio appartenente al Messico, ma nel film gli eroi stavano nel vecchio convento di Alamo che resistette, fino alla morte di tutti gli assediati, al cattivo dittatore Santana. Come contrappasso c’è comunque la sicurezza di trovarsi dalla parte giusta, ammesso che ve ne sia una, in Vera Cruz, che racconta le avventure di due pistoleri americani che finiscono per combattere a fianco dei Juaristi contro Massimiliano, fratello di Francesco Giuseppe, messo su trono del Messico da Napoleone III.

''Bastardi senza gloria'' di TarantinoInfine, come per molti altri film, celebri colonne musicali – Dimitri Tiomkin per Un dollaro d’amore e La battaglia di Alamo, il già citato Elmer Bernstein per I magnifici sette – accompagnano stabilmente il ricordo delle immagini. La loro importanza è stata capita benissimo da Quentin Tarantino che, nei suoi discutibili western “al sangue”, nonché nel surreale film bellico Bastardi senza gloria, cita e usa quelle stesse musiche “riempitive” ma soprattutto evocative.
L’allenamento passionale nei confronti di quei film ha fatto da ponte al successivo innamoramento dei primi film di Sergio Leone, nei quali il picaresco è riportato ad un modello esasperatamente mediterraneo. In qualche modo, la drammaturgia dell’inventore del western italiano recupera i motivi e le forme della commedia nazionale, rendendo ancora più sfumato il confine tra gli eroi e i “villains”. Infine, la ritualità bellica ha tempi interminabili e la musica di Ennio Morricone assume un ruolo molto simile alle partiture di un balletto o di un’opera lirica.

''I sette samurai''Come si sa, soggetto e sceneggiatura del vecchio I magnifici sette furono regolarmente acquistati dai legittimi  detentori dei diritti d’autore: Akira Kurosawa, Shinobu Hashimoto, Hideo Oguni. I tre,  nel 1954, avevano firmato la sceneggiatura di uno dei film più conosciuti del celebre regista giapponese, I sette samurai. Pochi spettatori della pellicola di Sturges, nonostante il film di Kurosawa fosse stato premiato a Venezia (Leone d’argento), erano coscienti di aver visto un vero e proprio remake. Qualcosa cambiò quando,  a metà degli anni Sessanta, furono trasmesse in tv le opere del più famoso autore nipponico: due in particolare, Rashomon che, nel 1951 aveva conquistato il Leone d’oro a Venezia  e, appunto, I sette samurai.
Ho sottolineato il passaggio televisivo perché non posso che aver visto sul piccolo schermo, almeno la prima volta, proprio I sette samurai, un vero cult – nonostante i tagli dell’edizione italiana, fortunatamente  ripristinati nel Dvd – ovviamente elitario, che potrebbe ipotizzare una sorta di nuovo esotismo, anche questo elitario ma con punte di popolarità inaspettate.

D’altro canto il mito americano, sia quello prebellico che post bellico, sostenuto dal pubblico cinematografico, ma coltivato anche da Pavese, Vittorini e poi da Fernanda Pivano, aveva un aspetto apertamente esotista. Le distanze e le difficoltà degli spostamenti di massa, così comuni al giorno d’oggi,  finivano per inserire il continente americano, latino o anglosassone puritano, ma permeato di altre culture nazionali (neri, pellerossa, messicani, cinesi), care a Antoine Fuqua, in un altro mondo.

''I magnifici sette'' di Antoine FuquaDunque, accettando l’idea di un esotismo sostitutivo, il ricordo più stabile del film di Kurosawa riguarda le battaglie campali: caotiche, esasperate, enfatizzate  fino al parossismo. La tradizione del cinema avventuroso occidentale, mutuata in gran parte dalla letteratura ottocentesca, è tuttora basata su un’alternanza di totali e di piani individuali (in figura intera o meno), quasi sempre visualizzati secondo l’importanza dei personaggi. Insomma, il caos bellico è razionalizzato come nella Waterloo descritta da Victor Hugo in I miserabili. Ovviamente, prescindendo dalla specifica cultura giapponese, oggi si tenderebbe a considerare la visione caotica delle scene belliche di I sette samurai come un’estrema derivazione  da un altro classico europeo ottocentesco, La certosa di Parma. In quel romanzo, il protagonista, Fabrizio del Dongo, “tifoso” di Napoleone, si trova a Waterloo, alla periferia della battaglia, e non riesce a capire  niente di ciò che succede, visto che è in grado di vedere solo dei frammenti bellici. Quei frammenti, soprattutto nello straordinario scontro finale, sotto la pioggia e in mezzo al fango, sono stati “compressi” dal regista nipponico in un montaggio velocissimo in cui le inquadrature sono quasi sempre in campo lungo e medio e lo spettatore non è in grado di capire chi siano i samurai o i contadini – cioè i buoni – e chi i briganti contro i quali si è scatenata la rivolta.

''Yojimbo''Altri titoli del regista giapponese, in particolare Yojimbo  e Sanjuro, transitarono nelle sale cinematografiche italiane dopo essere stati presentati alla Mostra veneziana nel 1961 e nel 1962. Kurosawa era ormai di casa. Questa ulteriore precisazione serve a mettere a fuoco l’idea di un continuo passaggio di testimone tra i registi, dipendente sia da una tradizione locale, ma soprattutto da archetipi legati alla narrativa avventurosa-cavalleresca che, appunto, evocando per la seconda volta Borges, ha nutrito il cinema di ogni continente. Per rafforzare questa dichiarazione non resta che ricordare la genesi di Per un pugno di dollari (1964), primo e inaspettato successo di Sergio Leone che costò al suo autore una citazione in giudizio da parte di Kurosawa. Lo si accusava di plagio visto che la vicenda raccontata dal film italiano è un vero e proprio ricalco di Yojimbo, distribuito in Italia con il titolo La sfida del samurai, giusto per evocare una tipologia eroico-cavalleresca esotica che cominciava ad avere una sua popolarità.
Leone perse la causa, pagò – il suo film aveva inaspettatamente incassato una montagna di soldi – ma si difese dicendo che certamente aveva visto La sfida del samurai e si era ispirato a quella vicenda; però, secondo la sua opinione, lo schema drammaturgico di entrambi i titoli era ormai universale, cioè derivato da un celebre testo teatrale di Goldoni, Arlecchino servitore di due padroni.

''Per un pugno di dollari''Il regista italiano aveva una parte di ragione ma sbagliò la citazione: l’ispirazione indiretta di Kurosawa, per bocca del suo collaboratore Kikushima, non fu Goldoni ma Dashell Hammett, autore nel 1928 di un ormai celebre racconto, Red Harvest, conosciuto in Italia come Piombo e sangue. Ecco in sintesi la trama, che anticipa sia il film di Kurosawa che quello di Leone: in una cittadina dell’Illinois, un detective privato si trova in mezzo ad una guerra tra bande locali e, per uscirne vivo, cerca di fare in modo che i “cattivi” si uccidano tra loro.
A quella storia originaria, ben coscienti di tutte le derivazioni, si avvicinarono, senza mai riuscire a produrne un film, sia Bernardo Bertolucci – che assieme a Dario Argento aveva scritto il soggetto, lontanamente parente della trama hammettiana, di C’era una volta il west – sia Wim Wenders, che nel 1985, finì per omaggiare le ombre alcoliche dell’inventore dell’hard boiled americano, ovvero del noir, con un discutibile Hammett. Indagine a Chinatown (1982), di cui si è quasi perso il ricordo. Infine, nel 1996, Walter Hill, riannodando tutti i fili dispersi di quella trama ormai slabbrata, girò un bel film gangster, interpretato da Bruce Willis: Ancora vivo.

''Guerre Stellari''Kurosawa, del resto, fu consapevolmente plagiato e risarcito anche da George Lucas. Per cucire la complessa vicenda di Guerre Stellari – il primo film della saga, prodotto nel 1977 – il regista americano ricalcò, quasi interamente, la trama di un film minore, ma non certo irrilevante, del regista giapponese, La fortezza nascosta, dove si narra appunto di una principessa che, guidata da un cavaliere senza macchia e senza paura, deve riconquistare il suo trono usurpato da un principe perfido e malvagio. A fianco del cavaliere stanno due poveri contadini, buffi, picareschi: i futuri robot del film americano. Lucas pagherà il suo debito, producendo Kagemusha (1980), uno dei film più ricchi, spettacolari e belli di Kurosawa.

L’imperatore del cinema giapponese (Tenno, ovvero imperatore, era il suo sopranome negli anni di gloria) era incappato, alla fine degli anni Settanta, in una serie di insuccessi che l’avevano messo ai margini del mercato. Tentò di girare film negli Usa, dove lo accolsero bene e lo trattarono malissimo. Da buon giapponese, discendente da una famiglia di samurai “senza padrone”, come i protagonisti di I sette samurai, tentò il suicidio. Fu aiutato a risalire la china dalla Mosfilm, la produzione statale sovietica, che gli finanziò un altro capolavoro, Dersu Uzala (1975), premiato con l’oscar.
In seguito, il già citato Lucas – che fece un anche buon investimento visto che Kagemusha vinse la Palma d’oro a Cannes – e poi Martin Scorsese, produttore di Sogni e interprete, in quel film, dell’ormai folle Van Gogh che vaga nel campo di grano inseguendo i corvi, lo riportarono ai fasti del dopoguerra e alla celebrità internazionale.

''I magnifici sette''A questo punto, si potrebbe affrontare un confronto analitico – che certo non può essere compresso in questi spazi – tra gli specifici linguaggi che hanno nutrito le trame universali descritte nelle righe precedenti. Ad esempio, John Sturges, buonissimo regista di western – suo è il remake più convincente ed esteso del celebre Sfida infernale di Ford, Sfida all’Ok Corral –   conserva semplicemente lo schema narrativo essenziale del film di Kurosawa: sette uomini di mano, di pistola e di fucile, che riscattano la loro vita di uccisori a pagamento, ponendosi gratuitamente al servizio degli abitanti di un paesino collocato subito dopo il confine che divide il Messico dal Texas. Altro trapianto riconoscibile fu la scelta finale di lasciare che Chico, il messicano che si unisce ai sei pistoleri professionisti, resti a vivere, per amore, nel villaggio. E infine, altrettanto naturale, nel Messico come in Giappone, è la diffidenza dei  contadini nei confronti dei pistoleros/samurai che hanno ingaggiati: sono diversi da loro. Soprattutto hanno paura per le loro donne, mogli e figlie, che nascondono.

Ma, in generale, come ribadisce anche il film di film di Fuqua, il modello più celebre di I magnifici sette è il già citato Il cavaliere della valle solitaria di George Stevens, capolavoro puritano, simbolizzato persino dagli abbigliamenti dei contendenti: Alan Ladd vestito di bianco; Jack Palance, il killer al servizio dei monopolisti, in nero. Al film di Stevens si ispira apertamente anche  Il cavaliere pallido (1985), di e con Clint Eastwood, che ha il grande merito di riportare negli Stati Uniti una parte delle autentiche atmosfere picaresche di Sergio Leone, innestandole irritualmente in un contesto quasi religioso, ovviamente anche questo puritano ma molto diverso dal film di Fuqua, che pure gli ha rubato almeno l’idea di un magnate minerario che vuole scacciare i suoi concorrenti.

''I sette samurai''Ma tornando agli innesti etnici del film di Sturges, gli avversari dei “magnifici sette” non sono dei briganti, come in Kurosawa, ma gli sgherri di un feudatario locale, quasi un aristocratico (il grande Eli Wallace, che in Italia, diverrà famoso come il personaggio picaresco dell’ultimo film della trilogia del dollaro di Leone, Il buono, il brutto, il cattivo) che affama il villaggio, facendo man bassa delle provviste di cereali e di altri prodotti della terra dei peones, costretti ad una economia di pura sussistenza. Ovviamente, si può ipotizzare che quella caratterizzazione etnica  anticipi il filone terzomondista. Ho già citato Vera Cruz, appartenente ad un vecchio e ricco modello tematico  hollywoodiano, risalente addirittura agli anni Trenta: gli uomini di mano statunitensi, spesso reduci dalla guerra civile, si spostavano al sud per combattere, per denaro o per un ideale. Anche il celeberrimo Il mucchio selvaggio, d’altronde, finiva per proporre il riscatto di una banda di rapinatori  attraverso un’escursione rivoluzionaria in Messico.
Con Peckinpah siamo però arrivati alla fine degli anni Sessanta. Il tema del “peone” come “dannato della terra”, anche in senso politico terzomondista, seguendo gli scritti di Franz Fanon che proprio in quegli anni, venivano letti e assorbiti dagli intellettuali europei, fu travasato ed espanso in maniera quasi esplosiva nel western all’italiana.

''I magnifici sette''Riprendendo la derivazione, almeno ideale, di quel ricchissimo filone nazionale anche da I magnifici sette, è però obbligatorio sottolineare che i linguaggi filmici sono però diversissimi. Già con Sergio Leone, i tempi scenici, soprattutto nelle scene d’azione, si allungano a dismisura. I duelli che concludono la trilogia del dollaro, ma anche C’era una volta il west, hanno una preparazione rituale, accompagnata dal tema musicale principale, che sembra non finire mai, e una conclusione segnata da un montaggio serratissimo che mette in risalto i dettagli dello scontro armato. Questa scelta, più stilistica che formale, rifiutata da gran parte della critica del tempo, fu spiegata tanti anni dopo da alcuni sceneggiatori, in particolare Giorgio Arlorio, come una forma barocca del western, cioè con una infinita “piegatura” dell’azione – il termine è di Deleuze e si può facilmente applicare all’esordio misterioso e perciò stesso straordinario di C’era una  volta il west – che aumenta  la tensione fino a farla esplodere, rivelando paradossalmente l’essenzialità estrema della situazione drammatica.
Altri sceneggiatori e registi, negli anni in cui trionfava il cinema politico, giustificarono la scelta del rallentamento esasperato come un’applicazione particolare del distanziamento brechtiano: un tentativo di razionalizzare lo spettacolo, rifiutando di coinvolgere emotivamente il pubblico, al contrario di quanto accadeva nel cinema avventuroso hollywoodiano che, letteralmente, assorbiva lo spettatore nelle proprie spire avvolgenti fino a soffocarlo.

Eppure, in base anche alle mie esperienze, il fenomeno western italiano, da Leone ai minori – spesso anche di talento, come Sollima o Corbucci – finiva per avere successo non già per un atteggiamento contestativo ma piuttosto caricaturale dell’eroismo cavalleresco del cinema classico. Come accadeva negli stessi anni con i film che avevano come personaggio principale l’agente segreto James Bond, il pubblico, soprattutto giovanile, s’immergeva volentieri in quel disincanto carnevalesco e ironico, lo stesso nel quale ha pescato Tarantino che, di suo, in maniera iper caricaturale, ha persino accentuato i tempi lunghissimi di Leone, riempiendoli di dialoghi surreali e ripetitivi, accentuando l’aspetto da opera buffa del cinema avventuroso di tutti i tempi.

''Yojimbo''Resta ovviamente in ballo la ritualità esasperata di Leone, che è anche il tratto formale e stilistico distintivo del suo cinema, tanto da diventare una delle linee strutturali e stilistiche più evidenti anche di C’era una volta in America. Considerata l’ammissione di colpa del regista per aver “plagiato” Yojimbo-La sfida del samurai, l’ipotesi di una derivazione kurosawiana non solo del plot (pur con tutti i distinguo legati alla lunga genesi della vicenda narrativa) ma anche di quasi tutte le scene importanti e persino di molte sequenze, non è affatto campata in aria. Nelle memorie dei collaboratori di Leone, infatti, vengono continuamente ricordate le discussioni su che cosa “rubare” (mi scuso per il termine, ma tutti i registi, come ha chiarito Wenders, sono anche dei ladri di cinema altrui) del copione originale e su che cosa sfruttare dello stile di regia di Kurosawa, basato su atmosfere e caratterizzazioni ambientali – il vento, la polvere, gli spazi vuoti, la ritualità dei rapporti interpersonali e nella preparazione di qualsiasi evento – poco praticate dal cinema occidentale.  

In Kurosawa, però, il meccanismo scenico del rallentamento dell’azione (da non confondersi con il “ralenty” inventato da Sam Peckinpah, ovvero lo scorrimento della pellicola ad una velocità bassissima) non ha la medesima funzione che possiamo rilevare nel cinema del regista italiano. Ecco un bel test che ci permette di ricominciare da capo a analizzare i film a partire non solo da un universalismo che ha le sue origini nei primi dieci anni del Novecento, ma anche dalle diverse e specifiche appartenenze culturali.

''I sette samurai''L’esordio di I sette samurai, in questo senso, è quasi emblematico: al samurai che capeggerà la guerra contro i briganti, viene chiesto di liberare un bambino rapito. Il rapitore si è rifugiato in una capanna e minaccia di uccidere la sua preda. Il samurai accetta l’incarico e se la prende comoda: prima di passare all’azione, deve prepararsi secondo un rituale quasi religioso che ha il culmine nella rasatura dei capelli. Tutte queste fasi sono visualizzate lungamente e in dettaglio. Poi, il nostro eroe si avvicina alla capanna, blandisce il rapitore, entra velocemente – lo spettatore sta virtualmente sulla soglia, assieme a coloro che attendono l’esito dello scontro, senza vedere l’interno della capanna – e, quasi immediatamente, esce con in braccio il bambino. Il rapitore lo segue e si accascia a terra, ferito a morte.
Non è l’unica ellisse, o per meglio dire una vera e proprio metonimia, ad apparire nel film. I duelli individuali, o tutte le azioni, a parte un primo scontro che permette di mettere in evidenza il grande valore del samurai – una sequenza ricopiata integralmente da Fuqua, che non a caso, ha per protagonista un asiatico – che si distinguerà nel corso delle diverse battaglie contro i briganti, sono anch’essi metonimici, nascosti dalla notte e dal bosco, la cui presenza misterica e nello stesso tempo religiosa, è la stessa di Rashomon: il paesaggio come personaggio, abbastanza tipico del cinema nipponico.

''I magnifici sette'' di Antoine FuquaC’è dunque una sorta di contrasto che costituisce l’architettura scenica nel film, da sempre presente nel cinema storico-avventuroso del regista, che, giusto per sfoggiare una po’ di cultura cinefila, si chiama “Jidai-Geki”: da una parte la ritualità, il mondo formale, cerimoniale, del Giappone antico, ma anche di quello moderno; dall’altra l’enfasi degli scontri armati, il parossismo dei gesti dei combattenti che, al contrario di ciò che succede nel cinema di Peckinpah, sembra velocizzato. Questo contrasto, presente in maniera quasi esasperata in uno dei capolavori assoluti di Kurosawa, Il trono di sangue (1958), ispirato al Macbeth shakespiriano, è oltretutto legato ad una forma scenica apertamente teatrale: il Kabuki, con la sua alternanza, appunto, di ritualità e mimica esasperata. E seguendo ciò che scrive uno dei maggiori studiosi del regista giapponese, Noel Burch, nel cinema di Kurosawa persino il cambio di sequenza, anziché seguire le punteggiature classiche (nero, taglio netto, dissolvenze), si serve di una scorrimento a tendina in cui la sequenza in entrata si sovrappone lentamente a quella in uscita: un cambio scena aperto, tipico del teatro kabuki.

Naturalmente, c’è anche l’altro aspetto della fama di Kurosawa: i critici giapponesi l’hanno sempre definito, in opposizione a Ozu, che pure fu un suo sostenitore negli anni della guerra,  il più occidentale dei registi giapponesi:  piace in Europa e negli Stati Uniti, sostengono la maggior parte di loro ed anche molti studiosi francesi, perché gira i suoi film come fosse a Hollywood. La definizione è però inesatta e soprattutto troppo generica. Il cinema di Kurosawa è sicuramente intriso di cultura occidentale – ma quale regista nipponico può essere assolto da questa presunta colpa? –  ma questo non vuol dire che girava i suoi film come fosse a Hollywood, i cui produttori non a caso, capirono subito, negli anni Sessanta, che quel signore dall’aspetto nobile, da vero samurai, non avrebbe accettato alcun compromesso sul set: era già un vero autore, come teorizzava in Francia, la nouvelle vague, e non voleva perdere questa sua autonomia creativa.

''I magnifici sette'' di Antoine FuquaLa lista delle influenze straniere è comunque facile: John Ford per i film storico-avventurosi, la letteratura russa e Shakespeare, per altro tradotti e divulgati in Giappone a partire dall’Ottocento, per gran parte delle altre pellicole. Le tracce di queste passioni o di queste ispirazioni sono abbastanza evidenti e il fatto che i film di Kurosawa furono poi “rubati” in occidente per ispirare degli western è già un dato dimostrativo. Per quanta riguarda l’Europa, invece,  L’idiota di Dostoevskij, trasposto nel 1951, è certamente tra i suoi capolavori, a cui fa seguito i Bassifondi, da Gorkji (1957). Infine, Shakespeare è, come ho scritto, l’ispiratore di Il trono di sangue (1957), e poi di Ran, (1985), ovvero un Re Lear giapponese: un altro capolavoro. Di questi europeismi conclamati rimangono tracce profonde anche nella drammaturgia del Jidaji Jeki: una di queste, forse la più evidente, è la presenza di un versante picaresco che accomuna Ford e Shakespeare. E proprio I sette samurai, oltre che nelle “figurine” patetiche ma giustificate dei contadini, ci mette di fronte al personaggio più originale: un eroe popolare, appunto, interpretato dall’attore preferito del regista, Toshiro Mifune, che obbliga i nobili cavalieri a prenderlo con loro nonostante sia un “reietto” che odia i briganti ma anche i Ronin che hanno sempre oppresso la povera gente.

''I sette samurai''La sua storia, le sue imprese, il suo coraggio e la sua follia shakespiriana costituiscono il filo rosso del film.
Infine, il tratto dostoevskiano lo si ritrova anche in una sorta di estremismo caratteriale, spesso violento, che costituisce il cuore della maggior parte dei personaggi di Kurosawa: dei Raskolnikov (il regista avrebbe voluto portare sullo schermo Delitto e Castigo) che non trovano mai pace.
Dunque, accostiamoci serenamente all’ultimo provvisorio scambio culturale tra oriente e occidente all’insegna di un’epica filmica classica e contemporaneo, ovvero post-moderna, che, nonostante l’assordante ridondanza spettacolare  dei film d’avventura e di fantascienza odierna, ha, evidentemente ancora qualcosa da raccontare.

23 novembre 2016

Powered by CoalaWeb

Accesso utenti e associazioni