Percorso

Memorie d'oltrecinema

La cineteca di Gianni Olla. Viaggio nel decalogo filmico del Sessantotto attraverso i circoli del cinema, i cineclub, i cineforum.

1968Ai primi di novembre sono stato Invitato al convegno cagliaritano della Federazione italiana circoli del cinema. Mi si chiedeva di raccontare la “cinefilia” politica del Sessantotto, ovvero “che cosa si vedeva sugli schermi dell’associazionismo cinematografico di quegli anni”.
Ovviamente, la ragione dell’invito stava nella lunga lista di film presenti nel mio libro A morte i padri. Cinema e film negli anni della contestazione: dove si erano viste quelle pellicole, in Italia, ma soprattutto a Cagliari o in altre località della Sardegna.

La richiesta di una spiegazione, per così dire, territoriale era legittima: nelle mie schede e nel mio testo, sono elencate non solo, in larga maggioranza, titoli italiani o statunitensi, ma anche polacchi, ungheresi, cecoslovacchi, jugoslavi, sovietici, tedeschi (e quest’ultimi sono paradossalmente i meno conosciuti), giapponesi, cubani, argentini, brasiliani.  La maggior parte di queste opere fanno  parte della  “grande storia del cinema mondiale”, ma è altrettanto vero che nulla dicono agli spettatori di oggi, a meno che non frequentino i corsi di storia del cinema dell’Università e non è detto che anche in quelle sedi il viaggio geografico sia così vasto.
Dunque provo a raccontare il panorama che si presentava, a Cagliari, alla fine degli anni Sessanta, quando già si sentiva il primo soffio della contestazione giovanile, non necessariamente chiusa nelle sedi universitarie.
C’era già, a partire dal 1966, La Cineteca sarda, promossa da Fabio Masala e sostenuta dalle teorie e dalle pratiche di un altro intellettuale/operatore culturale, Filippo Maria De Santis.
In effetti, la prima parte del convegno era dedicata proprio a questo straordinario personaggio, anch’esso  scomparso, come Fabio. Entrambi, in un’isola nella quale vi erano ancora problemi di alfabetizzazione primaria, utilizzavano i film – allora pochi ma buoni – proprio perché consentivano un approccio alla conoscenza del mondo.

''Il posto delle fragole''Questa metodologia didattica introduceva la discussione più o meno obbligatoria, propedeutica a visioni e letture ulteriori. Nel successivo confronto, anche serrato, il pubblico e non semplicemente i critici, gli intellettuali, o i registi avevano l’ultima parola. Ovvero, gli spettatori “riscrivevano” il film come loro l’avevano interpretato, fuori da ogni schema precostituito.
Se questa vera e propria pedagogia mass-mediologica – anche contestata, peraltro – si trovava ad un capo della diffusione cinematografica extra commerciale, l’altro polo dell’associazionismo aveva radici lontane e più familiari.
Tornando indietro nel tempo, giusto per riepilogare decenni di storia dell’associazionismo, già a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta, era attivo il CUC, Centro Universitario cinematografico, derivazione delle attività ricreative culturali degli studenti cagliaritani, la cui sede si trovava al primo piano del vecchio convento di San Giuseppe, in via Università, proprio di fronte al Rettorato, e comprendeva Il CUM (musica) e il glorioso CUT (teatro) da cui sarebbe nato il Teatro di Sardegna, tuttora attivo.

Per inciso, io ho conosciuto quei locali al liceo, come appassionato di teatro – nonostante la costante frequentazione cinematografica, dovuta a mio padre, quasi esclusivamente dedicata ai film americani, ritenevo infatti che il teatro fosse la vera cultura e il cinema un semplice divertimento – e come aspirante attore in compagnie teatrali non professional, piene però di grandi ambizioni, che avevano sede proprio in quei locali.
Ho conosciuto e ho lavorato, per poco tempo, anche con Pier Franco Zappareddu, prima che prendesse la via della Danimarca, e con Giorgio Pisano, allora aspirante regista. La mia carriera di attore per caso si chiuse con uno spettacolo de “I compagni di scena”, un nuovo gruppo “inventato” proprio da Zappareddu che, successivamente, abbandonò ai suoi adoranti allievi.

Ho un bel ricordo delle “tournè sarde”, quasi sempre di successo, di uno spettacolo a regia collettiva sull’emigrazione, ma non credo che avesse i  numeri per passare allo storia, anche solo regionale.
Invece, riesco ancora ad emozionarmi ripensando allo spettacolo di Peter Weiss, messo in scena proprio da Pier Franco Zappareddu: La persecuzione e l’assassinio di Jean Paul Marat, rappresentato dalla compagnia filodrammatica dell'ospizio di Charenton sotto la guida del marchese de Sade, abbreviato in Marat-Sade. Accadde nel 1970, giusto in coincidenza con un avvenimento di portata mediatica, diciamo, decisamente più rilevante.
Lo vidi per la prima volta, infatti, nei locali del Giardino d’inverno, in via Manno, futura sede del gruppo “Il Manifesto” per almeno vent’anni. Il giorno, domenica 12 aprile 1970, è appunto famoso, visto che il Cagliari batté all’Amsicora il Bari per 2-0 e conquistò l’unico scudetto della sua storia.
Uscì dal teatro – che teatro non era, ma funzionava comunque – ancora ipnotizzato da quello spettacolo, tra i più belli che ho mai visto nella mia lunga carriera di spettatore, e fui investito dalla fiumana di cagliaritani che scendeva verso il Largo Carlo Felice per festeggiare la conquista del titolo.
Questa deviazione, di cui mi scuso, serve semplicemente a sottolineare una sorta di conquistata modernità da parte del capoluogo della Sardegna, divenuto, e non solo a causa di questo avvenimento, ma anche della sua vivacità culturale, la capitale dei sardi.

''Il settimo sigillo''Ed ora torniamo al cinema o più specificamente ai circoli del cinema o cineforum o CUM. Il compianto e prematuramente scomparso Paolo Ferino, gestore dell’Ariston/Fiamma poi Ariston 2, ultimo locale – non proprio perfetto – in cui si potevano vedere i film “fuori mercato” prima dell’arrivo delle sale dell’Odissea, del Greenwich e dell’Alkestis, mi fece vedere, giusto per accreditare una fama culturale ai due locali, aperti appunto ai primi anni Sessanta,  i fogli della SIAE – chiamati “borderò” dagli addetti ai lavori – in cui erano rimaste le tracce della programmazione organizzata dai giovani del Centro Universitario cinematografico. Ricordo con precisione solo due nomi: Kurosawa, ovvero Rashomon e Bergman (Il settimo sigillo, Il posto delle fragole) che danno la misura di un’attività di diffusione culturale il cui compito era supplire alle “distrazioni” della programmazione commerciale, proponendo i migliori esiti della cinematografia mondiale contemporanea, soprattutto europea.
L’allargamento del consumo culturale  fu agevolata anche dalla distribuzione a passo ridotto della Società di San Paolo (esiste ancora, in via Garibaldi, e ovviamente, ha un buonissimo catalogo di DVD), gestita dalle suore dell’ordine omonimo, nel cui magazzino si potevano trovare le copie in 16mm non solo dei lavori di Bergman, ma anche quelli di Buñuel, Bresson, Dreyer, Tati, Olmi, e tanti altri autori che, per usare un termine del critico-regista Paul Schraeder, erano orientati, nel bene e nel male, verso la trascendenza.

D’altro canto, anche la Cineteca sarda aveva un magazzino che, di anno in anno, estendeva i suoi confini culturali e geografici: si riuscì ad avere gran parte dei lungometraggi di Chaplin, Ivens, i cineasti dell’avanguardia tra le due guerre (Clair, Duchamp, Man Ray), i registi sovietici e gli espressionisti tedeschi e, con questo prezioso materiale, si organizzarono spesso delle rassegne.
Dunque la mia formazione ebbe inizio, in qualche modo, nei grandi locali di via Molise, con le rassegne che venivano organizzati e guidati dal professore di Storia e critica del cinema, Antonio Cara, e che avevano già un’impronta alfabetizzatrice  più specialistica.

''Rashomon''Con la fine degli anni Sessanta, però, il significato di cineclub, circolo del cinema o cineforum, cambiò di significato. Da un lato, infatti, la maggiore alfabetizzazione del pubblico – e questo non solo a Cagliari ma in tutta la Sardegna – pose le basi per una maggiore diffusione delle attività, dall’altro il bisogno di discutere i film incrociò i movimenti politici post sessantotteschi che, magari brutalmente e senza alcuna attenzione a quello che, ironicamente, veniva ancora definito lo “specifico filmico”, voleva che si parlasse dei contenuti, possibilmente attuali e politici.
Un esempio abbastanza illuminante riguarda appunto la mia timida partecipazione, da semplice iscritto, alla programmazione del Cineforum cagliaritano, un’associazione di matrice cattolica la cui sede centrale, a Bergamo, è tuttora un centro culturale piuttosto importante dove si svolge un festival (Bergamo Film Meeting) e si pubblica una prestigiosa rivista con lo stesso nome.
Mi iscrissi senza neanche pensare al fatto che fosse un’associazione cattolica, nonostante fosse un dato più o meno manifesto, visto il luogo in cui si svolgevano, settimanalmente, proiezioni e successive discussioni: la sala del convento di San Michele, in via Ospedale, già usata  dal Teatro di Sardegna e successivamente – a partire dalla metà degli anni Settanta – luogo mitico per la neo gioventù contestatrice.

Difatti il nuovo cineforum – che si autonomino Ideforum – fu gestito dittatorialmente e simpaticamente (talvolta) da Padre Egidio Guidubaldi, anch’egli scomparso, la cui programmazione fu all’altezza delle migliori tradizioni cinefile, quasi d’avanguardia, e fu altrettanto contestata dalle centinaia di giovani che, dopo aver visto, giusto per fare  esempi estremi, La montagna sacra e El Topo di Jodorowski – allora sugli altari – si divertivano ad impedire il dibattito, giusto per far indispettire il simpatico (sempre talvolta) gesuita che tentò persino di chiudere le porte per obbligare quei giovani riottosi al dibattito. Ma su questo si potrà tornare.

''La montagna sacra''Per ora siamo ancora al 1971, e la mia scelta fu determinata dal fatto che in quel Cineforum si programmavano molti film inediti, per lo più provenienti dai paesi dell’est europeo, in particolare la Cecoslovacchia (Forman, Menzel, Chytilova, Scrhom, Jakubisko), la Jugoslavia (Makavejev), ungheresi (Jancso, Szabó,  Kovacs, Gaál, Mészáros, Gábor),  polacchi (Wajda, Skolimowski), e più avanti nel tempo, film cubani, cileni, argentini e persino giapponesi.
Ecco la fonte primaria delle presenze filmiche nel mio libro, poi accresciute dalla frequentazione del Festival del Nuovo Cinema di Pesaro, aperto appunto all’associazionismo cinematografico e capace di suggerire ai distributori la possibilità di investire, con moderazione, nei circuiti d’essai del nostro paese.
È però curioso che il mio battesimo del fuoco, come spettatore,  avvenne invece con un film italiano, piuttosto importante e di successo, che però, per ragioni economiche, non avevo visto nelle sale commerciale di prima visione: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, datato 1970.
Era stato riproposto nel programma del Cineforum proprio perché era un film “da discutere”, e tra minacce di sequestro e polemiche politiche, timidamente apparse sulla stampa (allora non c’erano i social media e i giornali erano piuttosto prudenti, oppure schierati apertamente a seconda delle appartenenze politiche: destra, sinistra, centro), aveva avuto un grande successo.
La riproposizione in una sala culturale, due anni dopo la prima (la programmazione dei film al quel tempo, durava diversi anni, visto che le pellicole “passavano” nelle sale di seconda e terza visione), era stata originata proprio dalle inevitabili polemiche politiche.

''Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto''E appunto, in quel pubblico borghese – il termine in questo caso prescinde dagli slogan del Sessantotto – di matrice cattolica, colto, e persino vicino ai movimenti della contestazione, scattò la scintilla della “separazione”  generazionale.
Difatti, alla fine della proiezione, mentre i “pasdaran” della  estrema sinistra si preparavano ad intervenire in maniera, diciamo, comiziesca, si alzò dal suo sedile in legno (allora i cinematografici e i teatri erano abbastanza scomodi ma nessuno ci badava) un signore che avrà avuto una sessantina d’anni, e con voce ferma ma educata disse semplicemente: “io, in questa sala non verrò mai più, perché si proiettano film che offendono le forze dell’ordine, la magistratura e l’intero stato italiano.” Uscì dal locale, seguito da una selva di fischi e di pernacchie, se non d’insulti, mentre il moderatore del dibattito, un signore che aveva pochi anni in meno del fuggiasco, cercava di riportare la calma per far iniziare il dibattito che, inevitabilmente, evitò il cosiddetto  “specifico filmico”, concentrandosi sulla politica.
Il mio percorso d’iniziazione non fu turbato da quell’episodio: oscillavo tra la buona educazione che capiva il comportamento del “matusa” di turno (quelli che avevano più di quarant’anni erano così definiti fin dai primi anni Sessanta) ma che aveva voglia anche di sentire i commenti politici e ideologici al film, capaci purtroppo di svalutare molta parte della genialità filmica di Petri, come accade anche oggi per tante altre sue pellicole quasi dimenticate.

L’anno dopo, entrai a far parte del direttivo del Cineforum cagliaritano e, assieme ad altri volenterosi, cercai appunto una mediazione tra il bisogno di “far vedere” cose nuove, anche in senso geografico, e l’esigenza politica di portare le discussioni al presente, alla presunta rivoluzione “in corso”.
Nel ricordo di quegli anni, mi sembra quasi “irreale” il fatto che, a partire da quella doppia esigenza, si riuscì ad organizzare proiezioni e dibattiti non solo nella sala di via Ospedale, ma anche nelle periferie e  fuori dalla città. Soprattutto la diffusione culturale si avvalse di pellicole che oggi dicono poco agli attuali spettatori, anche “cinefili” di rango.

'Le lunghe vacanze del '36''Ad esempio, chi mai potrà credere che alla proiezione di Le lunghe vacanze del ’36, di Jaime Camino, uno dei primi film che raccontava dall’interno la Guerra civile spagnola – si era appena nel 1975, fase di transizione nella quale non era ancora stata votata la nuova costituzione (spagnola) democratica e parlamentare – c’erano quasi 300 persone, e non a Cagliari, ma a Villacidro, nell’unico locale cinematografico rimasto in attività. Quasi tutti gli spettatori parteciparono al dibattito successivo.
Un’analoga esperienza la feci, con altri soci del Cineforum, a Arbus, nella sala parrocchiale. Il film era ancora più “invisibile” di quello di Camino: La tierra prometida di Michel Littin (1973), un regista cileno appena fuggito dal suo paese, dopo il colpo di stato di Pinochet e l’uccisione del presidente Allende.
Posso aggiungere che non sembra neanche verosimile aver presentato e discusso film (e neanche facili o popolari) nella sala cinematografica di Sant’Elia, ancora esistente, all’ingresso del vecchio borgo, a fianco all’ex scuola, o nel centro sociale di Is Mirrionis, oggi murato, nello sterrato posto al centro delle case popolari, subito dopo il grande palazzo che fa angolo con via Cadello. E ancora, in una stalla (letteralmente, anche se gli animali non c’erano) a Santadi, paese allora poverissimo, o al circolo culturale di via Piccioni, a Cagliari, con gli abitanti di Villanova che si portavano da casa la sedia, come alla sagra patronale.

Ma, in generale, mettendo assieme le esperienze di alfabetizzazione della Cineteca sarda – che ovviamente portavano la diffusione culturale in profondità – e i cineforum “volanti”, nonché tutte le esperienze spontanee di paesi e città sarde, vi era una rete in cui il cinema era davvero uno strumento di conoscenza del mondo, e dunque, anche quei film “misteriosi” citati o raccontati nel mio libro sul Sessantotto, ci catapultavano, idealmente, oltre l’orizzonte di una città di provincia.
Mi accorgo che, in queste autentiche “memorie d’oltrecinema”, domina inevitabilmente la nostalgia. Però, storicamente, queste esperienze sono state la base per una diffusione del cinema “culturale” che oggi non è affatto disperso, solo molto più parcellizzato, in sintonia con un mondo mediatico che può anche dispiacere ai puristi dei cineclub di un tempo – quelli che, appunto, non vanno mai nelle multisale, non comprano mai su Internet, non vogliono vedere i film in tv o sulle piattaforme, né in DVD – ma che ha permesso una diffusione cinematografica senza pari. Infatti la possibilità di vedere e discutere i film è molto più ampia che in passato e, anche in Sardegna, esistono diversi insegnamenti universitari di Storia e critica del cinema, frequentati da centinaia di studenti che spesso vogliono “imparare” non solo a vedere e a capire i film, ma a farli.
La curva decisiva di questo orientamento apparentemente massificato – in realtà meno elitario – può essere datata alla fine degli anni Settanta, non a caso, nel punto finale della presunta rivoluzione sessantottesca, che ci fu ma che ebbe effetti soprattutto sul piano della liberazione mentale delle nuove (e forse anche vecchie) generazioni.

Ricordo che tra le ultime sorprese del Cineforum Cagliaritano – emigrato nei locali cinematografici di Monserrato – ci fu la trilogia di Anghelopulos (Ricostruzione di un delitto, I giorni del trentasei, La recita, tutti girati mentre erano ancora al potere i colonnelli) che, dopo i premi a Cannes, furono acquistati dalla distruzione di stato, l’Italnoleggio, e diffusi, con eccessiva parsimonia, nelle sale d’essai, ovviamente in lingua originale con i sottotitoli. Eravamo già nel 1976: quei film furono accolti molto bene, ma l’iniziativa, forse per stanchezza degli operatori culturali, scandì gli “ultimi fuochi” del Cineforum cagliaritano, che però lasciò molti eredi, diretti e indiretti.
Difatti,  oltre alla sempre presente Cineteca sarda, garante non solo dei dibattiti ma anche di una qualità filmica basata sui classici della Settima arte, nacquero piccoli cineclub “resistenti” come Il glorioso Vicoletto di Giorgio Ferrari – padre  dell’attuale Greenwich d’essai – che si appoggiava al catalogo della San Paolo o alla normale distribuzione commerciale.

''Je vous salue Marie''Ma soprattutto, come ho già scritto, gli anni a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta furono dominati, a Cagliari, e in parte anche a Sassari, dall’Ideforum di Padre Egidio Guidubaldi, la cui follia progettuale lo portò nel 1982 ad organizzare un incontro estivo, in un cortile del quartiere Marina, oggi divenuto un parcheggio, proprio con il regista greco, vincitore del Leone d’oro a Venezia con Megaalexandros.
Alla “follia” positiva di Guidubaldi, personaggio quasi folclorico, oltre alla circuitazione, quasi “fuorilegge”, di un film censuratissimo di Godard, Je vous salue Marie (1985), si deve soprattutto la diffusione dei nuovi registi dl cinema tedesco: Fassbinder, Herzog e soprattutto Wim Wenders, attivi già alla fine degli anni Sessanta, assieme al loro maestro, Alexander Kluge, ma sconosciuti in Italia.
Si può chiudere pensando ad una lettura pertinente, cioè storica, del rapporto tra cinema e contestazione che ho tentato di raccontare nel mio libro. Non ho voluto inneggiare alla forza rivoluzionaria del cinema politico – che pure ci fu e ebbe una certa importanza – ma ad una consapevolezza intellettuale – che riguardava autori grandi e piccoli, registi e mestieranti – del cambiamento epocale delle società occidentali ed anche di quelle orientali: l’ultima grande mutazione di un “medium” che si andava mescolando ad altri strumenti di comunicazione, in primis la televisione.

Come cantava Bob Dylan, proprio negli anni Sessanta, “ the times they are a changing”, e si potevano vedere questi cambiamenti nelle opere di quasi tutte le cinematografie mondiali.
Non è un caso che, una volta seminato il germe di una diffusione dei circoli in profondità, l’ultimo grande successo del cinema d’essai si ebbe grazie ad una iniziative del redivivo Centro Universitario Cinematografico.
A cavallo tra il 1973 e il 1974, durante la celebre emergenza petrolifera derivata dal blocco delle forniture da parte dei paesi arabi come ritorsione nei confronti dell’occidente filo israeliano, il CUM offrì ai cittadini “appiedati” dall’austerità domenicale, la possibilità di andare al cinema  a vedere i grandi classici del cinema italiano.
Fu un successo mai ripetuto dopo: sale piene alle 11 del mattino per vedere La dolce vita o Rocco e i suoi fratelli, giusto per dare l’idea della qualità dei film. Li vidi per la prima volta anch’io, che nel 1960 avevo appena 9 anni e dunque potevo recuperarli solo attraverso l’associazionismo.
Giusto per dare a ciascuno il suo, il presidente del CUC, in quegli anni, era l’attuale assessore al bilancio e vicepresidente della Regione, Raffaele Paci. Chapeau.

9 dicembre 2018

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