Sogni, delitti e cuori infranti
Viaggio nella 'storia minima' d'Italia coi film di Gianfranco Giagni. di Elisabetta Randaccio
Il Festival Premio Emilio Lussu, organizzato dall'Associazione "Alambicco", che giungerà alla sesta edizione nell'autunno del 2020, riserva, come, ormai, da consuetudine, alcune anteprime che spaziano ampiamente nell'ambito della cultura: dalla presentazione di libri alla proiezione di film, dall'approfondimento storico a quello sui mass media.
In questo senso, una bella sorpresa sono stati gli appuntamenti del 22 e del 23 febbraio all'Hostel Marina di Cagliari, dove si è svolta una mini monografica delle opere del regista Gianfranco Giagni. Avevamo già incontrato Giagni nel novembre scorso per la proiezione, all'interno della rassegna cinematografica su Carlo Verdone, del documentario "Carlo!", realizzato insieme a Fabio Ferzetti nel 2012, un ritratto acuto, interessante e appassionante del regista romano. Gianfranco Giagni è un filmaker che si è dedicato con successo alla realizzazione di documentari e di videoclip, ma ha firmato pure serie televisive (ricordiamo almeno "Valentina", 1989, sul personaggio creato da Crepax) e lungometraggi estremamente originali quali "Il nido del ragno" (1987) e "Nella terra di nessuno" (2001).
Durante l'anteprima del "Lussu", a cui ha partecipato lo stesso Giagni, gli spettatori ne hanno potuto approfondire l'opera documentaristica. Inoltre, il pubblico, nel corso degli incontri, ha potuto discutere con il regista i film, che non hanno lasciato indifferenti, anche per i loro particolari contenuti. Sicuramente, come ha affermato Giagni, i tre documentari in programma si propongono anche come un viaggio nella storia recente, nella società e nei mutamenti di costume del nostro paese. Così, "Sogni, sesso e cuori infranti" del 2018, raccontandoci della nascita e dell'evoluzione della "posta del cuore", una tipologia di rubrica divenuta assai popolare nei giornali femminili del secondo dopoguerra, ci mostra il difficile percorso della questione femminile in Italia. Giagni utilizza il prezioso materiale dell'Istituto Luce, produttore del film, in maniera creativa, spesso più per associazione che per documentazione, ritagliando volti e piccoli episodi riguardanti donne "comuni" e altre di successo, componendo un album evocativo, intenso, a volte pure inquietante, di passioni, splendori, miserie delle signore e signorine che, negli anni cinquanta e sessanta, tentavano di vivere la propria realtà e i propri sogni in un mondo profondamente ipocrita e maschilista. Alle immagini di repertorio, il regista, associa un segmento di "ricostruzione".
Appare, così, un bel salotto con i mobili color pastello, presunto sogno domestico di una donna-stereotipo, con tanto di mobile-televisore con i piedini di legno, dove la bravissima Anna Foglietta interpreta la "posta del cuore", le lettere allegre, drammatiche, ingenue, profonde che le lettrici di "Amica", "Annabella", "Grazia" e altre riviste femminili scrivevano alle curatrici della rubrica con una fiducia sicuramente patetica, ma pure con un senso di riproduzione diaristica dei propri pensieri e problemi. Ascoltando le parole della "posta del cuore", riuscendo ad andare oltre il grottesco e il ridicolo colto dallo spettatore contemporaneo, si può affermare, come sottolineava per il romanzo rosa Antonia Arslan, che l'amore era sentito "dunque come sentimento formativo, non come passione fatale ed esclusiva". Dall'amore si passava, poi, alle sue conseguenze: marito, famiglia, figli, spesso "trappole", personaggi e luoghi di frustrazione, ma anche terreno di scontro alla ricerca di equilibri personali e sociali in un mondo in continuo cambiamento.
Le curatrici di queste rubriche, a cui Anna Foglietta dà voce con il giusto alternare di serietà e ironia, sono le anticipatrici delle moderne influencer (queste ultime non particolarmente evolute rispetto a modelli passati e ritriti) ovvero Donna Letizia (Colette Cacciapuoti moglie di Indro Montanelli), dispensatrice di modelli conservativi e superati, Contessa Lara (Irene Brin), una innovativa giornalista e intellettuale che fingeva di essere una vecchia aristocratica capace di consigliare "adeguatamente" signore e signorine sul galateo e sulla moda, nonché Brunella Gasperini, la quale segna uno spartiacque, all'interno della tipologia della rubrica delle lettrici. Le sue risposte, infatti, riflettono una intelligenza e una sensibilità in sintonia con i cambiamenti di costume e, come nei suoi romanzi, sono percorse "da una venatura ironica, mentre la tematica amorosa funziona come detonatore per il passaggio alla maturitá".
Gianfranco Giagni, insomma, è riuscito ad affrontare cinematograficamente una tematica non semplice, perché ancora oggi il romanzo rosa, il fotoromanzo e la posta del cuore imbarazza, come ha anche scritto acutamente in un saggio di alcuni anni fa Maria Pia Pozzato; sono tematiche che creano perplessità, accettate esclusivamente se trattate con ironia. "Sogni, sesso e cuori infranti", invece, riesce, mai trascurando il livello di cura formale del film, a impostare una riflessione seria, per quanto spiritosa e anche emozionante.
"Le scandalose", sempre prodotto dall'Istituo Luce nel 2016, è stato proiettato nel secondo appuntamento della mini rassegna.
Si tratta di un documentario sulle "donne assassine", su alcuni eclatanti casi di cronaca nera documentabili anche con immagini cinematografiche del Novecento. Pure in questo caso, il repertorio è straordinario e Giagni lo alterna con letture fuori campo (le voci sono di Claudio Santamaria e Sonia Bergamasco) di testi di alcuni scrittori e giornalisti italiani (tra gli altri Dino Buzzati, Oreste Del Buono, Vitaliano Brancati) i quali si occuparono nel corso della loro carriera, per scelta o per necessità, di quel genere di cronaca che, decisamente censurato nel ventennio fascista, avrà uno sviluppo incredibile dopo il 1945. Anche "Le scandalose", con il racconto dei sanguinosi delitti commessi da donne assai differenti, per censo, per personalità, per contesto sociale, risulta essere paradossalmente, come ha detto durante l'incontro il regista, la narrazione di un percorso di emancipazione, ovviamente estremo.
Eppure nell'analisi di quei crimini, a volte efferati, si possono ritrovare le testimonianze di una condizione femminile in cerca di riscatto. Colpiscono i commenti dei cinegiornali impregnati di un maschilismo volgare, così come le interviste ai giuristi che stigmatizzano la proposta di far entrare le donne nelle giurie popolari, scandalizzati, perché è meglio che la donna stia a casa! D'altronde, non dimentichiamo come neppure i padri costituzionali permisero alle donne di intraprendere la carriera della magistratura, per la quale bisognò attendere una legge del 1963!
Giagni si serve del materiale di repertorio con abilità e le immagini originali da lui girate, si saldano con grande forza a quelle del passato, complice una bella colonna musicale. In questo modo, per esempio, i corridoi abbandonati del manicomio d'Aversa, gli ampi spazi solenni della Cassazione commentano vite devastate dalla malattia o dall'ossessione. Dalla saponificatrice Leonarda Cianciulli, dalla mente alterata da un'infanzia allucinante e dalla morte di 13 figli, di cui vediamo un prezioso brano di intervista realizzato negli anni cinquanta da Luigi Comencini, alla "belva di S. Gregorio", Caterina Fort, giovane che dalla campagna si era spostata in città per cercare lavoro, dove venne abusata e, poi, sedotta da un uomo mediocre, di cui sterminerà la famiglia, dalla contessa
Bellentani assassina dell'amante ("Carlo Sacchi era il classico amatore carnale, un amatore di quantità non di qualità" dirà l'avvocato difensore) alla giovane Dora Graneris, la quale, nel 1975, sterminò la famiglia più che per soldi, quasi per una estremizzazione di rancore adolescenziale, Giagni ci consegna un'antologia del male al femminile, che suscita pietà e non semplice orrore.
L'ultimo film in programma è stato "Sartoria Tirelli: vestire il cinema", documentario risalente al 2006. Narrato fuori campo da Isabella Rossellini, che, però, è presente anche come testimone, si concentra sull'attività di Umberto Tirelli e sulla sua mitica scuola di costumi per il cinema, il teatro, la lirica, una eccellenza italiana rimasta punto di riferimento per le produzioni cinematografiche sia nostrane sia internazionali, anche dopo la morte del suo fondatore avvenuta nel 1990. Giagni, attraverso le interviste a grandi registi (tra gli altri Bernardo Bertolucci e Giuseppe Tornatore), collaboratori straordinari come Piero Tosi o Gabriella Pescucci, alternate con riprese di abiti bellissimi e esemplari per la storia del cinema (spesso zoomando su dettagli meravigliosi) illustra la storia umana e artistica di un ragazzo che, dal sogno di aprire un negozio nel suo paese natio, sarà capace di diventare un vero e proprio "archeologo della moda", nonchè mentore di una scuola di costumisti tra i più importanti del mondo, i quali, in molti casi, riceveranno ambiti riconoscimenti come gli Oscar.
È anche un modo per mostrare l'importante condizione di collaborazione collettiva dell'arte del cinema: un film è il frutto non solo del regista, ma di una squadra di creativi e tecnici senza cui non sarebbe possibile ottenere risultati di alto livello. Cosa sarebbe stato "Morte a Venezia" di Visconti senza gli abiti e i cappelli indossati da Silvana Mangano, ideati dopo lunghe ricerche storiche da Tosi e da Tirelli? E la "Medea" di Pasolini senza gli incredibili costumi di Gabriella Pescucci e di Tirelli? Il documentario di Giagni, così, diventa persino didattico, nel senso migliore della parola, e ci spinge ancor di più ad amare e apprezzare il cinema.