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Percorso

Ricordando Marcel Proust a cent’anni dalla sua scomparsa.

La recherche:  non solo parole ma immagini nell’epoca della loro riproducibilità tecnica. Memorie d'oltrecinema. La cineteca di Gianni Olla

Marcel Proust1. Contro la neutralità della tecnica: evocazioni memoriali, “spessori d’arte” e realtà istantanee impressionate dalla pellicola.

Questo saggio è ispirato e in parte ricavato da una mia comunicazione  ad un convegno sulla cultura francese tra i due secoli, ovviamente l’Ottocento e il Novecento. Avevo appena pubblicato un volume sul “cinema proustiano” – già l’accostamento sembra un vero ossimoro, conoscendo l’ostilità della scrittore nei confronti del cinematografo – e mi si chiese, appunto, un intervento che indicasse i rapporti della scrittore con le arti e i mezzi di comunicazione del suo tempo.

Successivamente trasferì quella comunicazione orale in un ampio scritto che avrebbe dovuto essere pubblicato assieme ad altri, provenienti dallo stesso convegno. Purtroppo quel volume, a prescindere dal valore del mio intervento, non vide mai la luce. 

E dunque, per ricordare in maniera originale il centenario dello scrittore, che cadrà nel mese di novembre, ho rimesso mano a quello scritto che cercava di fare il punto su ciò che Proust racconta e analizza a proposito dei rapporti tra immagini – di qualsiasi tipo – e parole.

           Ho ovviamente lasciato nel titolo la citazione del celebre saggio di Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, pubblicato per la prima volta a Parigi, nel 1936. 

Tra Proust e Benjamin – che fu, tra l’altro il primo traduttore tedesco della Recherche  – le comunanze teoriche si fermano altresì alla semplice constatazione dell’importanza mediatica dell’opera d’arte. 

          Per il saggista tedesco, questa constatazione fu il punto di partenza di un’analisi sociologica, ancora intrisa di ottimismo verso una progressiva democratizzazione della cultura. Per lo scrittore, invece, i media novecenteschi (fotografia, telefono, cinematografo, registrazioni audio), diventano paradigmatici non già rispetto a una possibile democratizzazione della cultura ma proprio come interferenze nei confronti dell’espressione artistica “pura”, e in quanto tali, possono essere considerati  un vero e proprio sottotesto della Recherche, capace di illuminarci  su alcune peculiarità della sua scrittura. 

          Difatti il ciclo romanzesco proustiano, gran contenitore di motivi e citazioni musicali, estetiche, pittoriche, teatrali  – esplicite o nascoste – che si spingono indietro nei secoli, dedica molto spazio anche alla nuove idee e alle nuove tecniche, presenti nelle Esposizioni Universali da qualche decennio, che attraevano e/o spaventavano intellettuali ed artisti. Ma nessuna osservazione dell’io narrante, neanche quelle sulla malattia e sulla medicina, costanti e continue, hanno un carattere neutro: mettono sempre in gioco un punto di vista, un’osservazione, un’elaborazione quasi filosofica.

         Come scrive Antonio Costa (Storia del cinema mondiale – Einaudi 2001): «Proust non concepisce una realtà separata da un soggetto che la percepisce e quindi definisce la realtà stessa in termini relazionali che pertanto escludono la possibilità di un’oggettivazione indipendente dall’io che la percepisce»

        Per maggior chiarezza, un mezzo di comunicazione apparentemente neutro come il telefono – ma anche questa neutralità è stata, oggi, travolta dalle progressive, e invasive oltre ogni immaginazione, dei cellulari, smarphone, Ipad e ogni altro sistema di telefonia mobile, vero e proprio nuovo “medium” totalizzante che meriterebbe un saggio a parte – è utilizzato da Proust come mezzo (il Teatrofono) per ascoltare uno dei suoi pezzi musicali preferiti, in diretta:  Pelleas e Melisande di Debussy. 

        Lo stesso mezzo di comunicazione, in una celebre scena del romanzo (l’attesa della voce della nonna, già malata, mentre il Narratore è in compagnia di Saint-Loup a Doncierès, durante il servizio militare dell’amico), diviene l’elemento centrale di una doppia e contrapposta allegoria evocativa: la presenza magica, ovvero la materializzazione di una voce lontana, e nello stesso tempo, la prefigurazione di un’inevitabile assenza, di una perdita definitiva, quella dell’amatissima donna, da tempo malata e sempre più grave. 

       In questa sede ci soffermeremo, altresì, su due “media” novecenteschi per eccellenza, la fotografia e il cinema, che  hanno davvero cambiato la percezione e la fruizione, nonché – secondo molti studiosi, tra cui Benjamin –  il concetto stesso di opera d’arte.

       Il punto di partenza può essere un brano, abbastanza famoso, di Dalla parte di Swann: «Avrebbe voluto che io avessi nella mia stanza le fotografie dei monumenti e dei paesaggi più belli. Ma nel momento di acquistarle, e benché l’oggetto rappresentato avesse un valore estetico, le sembrava che la volgarità, l’utilità riprendessero troppo presto il sopravvento nel modo meccanico della rappresentazione. Cercava di giocare d’astuzia e, se non di eliminare del tutto la banalità commerciale, almeno di ridurla, inserendovi, per così dire, svariati “spessori d’arte”: invece delle fotografie della cattedrale di Chartres, dei giochi d’acqua di Saint-Cloud, del Vesuvio, s’informava da Swann se qualche grande pittore li avesse effigiati, e preferiva regalarmi le fotografie della cattedrale di Chartres dipinta da Corot, dei giochi d’acqua dipinti da Hubert Robert, del Vesuvio dipinto da Turner, il che rappresentava un grado d’arte in più. Ma il fotografo, escluso dalla rappresentazione del capolavoro o della natura e sostituito con un grande artista, riacquistava i suoi diritti nel riprodurre quell’interpretazione. Di fronte all’imminente scadenza nella volgarità, la nonna tentava di rimandarla ancora. Chiedeva a Swann se dell’opera non fosse stata fatta qualche incisione, preferendo, quando era possibile, incisioni antiche e che presentassero qualche interesse supplementare, per esempio quelle che raffigurano un capolavoro in uno stato nel quale oggi non possiamo più vederlo (come la stampa della Cena di Leonardo eseguita da Morghen prima della degradazione»

        Inserita nel celebre passo in cui la madre passa la notte nella stanza del bambino ansioso, leggendogli alcune pagine di Francois le Champi, la riflessione ha un rilievo persino ironico nel sottolineare l’inutilità  dell’ossessione estetica della nonna, che contribuì non poco a formare il gusto del giovane protagonista.

          Il vero Marcel Proust fu, d’altro canto, non solo un cultore e uno studioso pronto a emozionarsi – come in preda ad una vera “Sindrome di Stendhal” – per opere d’arte originali come quelle cercate dalla nonna, ma anche un collezionista di fotografie. 

         E, non essendo stato un grande viaggiatore, gran parte delle sue passioni pittoriche e architettoniche gli erano note soprattutto per le riproduzioni fotografiche dell’epoca, esclusivamente in bianco e nero, dunque attraversate da “spessori d’arte” a bassissima definizione.

       Un’eccezione fu il quadro Veduta di Delft di Vermeer,  che vide in originale ben due volte, l’ultima delle quali nel maggio del 1921. Fu anche l’ultima foto di Proust vivente, barcollante ma sorridente – era già in pessime condizioni di salute – all’uscita del “Jeu de Paume”, dove erano esposti i capolavori dell’arte olandese, tra cui appunto Veduta di Delft e, per i lettori della Recherche, rimanda esplicitamente al malessere che colseBergotte e che poi lo portò alla morte, descritta in La prigioniera.

       Dunque persino la messa in scena, per via indiretta, della propria “morte d’artista” subisce l’influenza di un rapporto ambiguo ma inevitabile tra l’emozione dello sguardo e la riflessione a partire da una riproduzione che s’irradia nella descrizione del celebre muro giallo presente nel quadro di Vermeer, peraltro quasi inventato da Proust o comunque riproposto come intreccio tra immagine e sensazione interiore.

        Fuori dalla fruizione estetica, la fotografia, nella vita e nell’opera di Proust, è anche un continuo “memento” esistenziale. Lo scrittore fu un collezionista, spesso indiscreto, di fotografie di amici e amiche e nel romanzo chiede con insistenza a Saint Loup una foto della zia Oriane de Guermantes, guadagnandosi una sorta di stupore, se non di disgusto per questo tentativo d’intrusione nel privato di una persona che non lo conosceva affatto. 

        Quest’ossessione è ben descritta in un film, Il tempo ritrovato (1999)di Raul Ruiz, che ricostruisce gli ultimi giorni di vita dello scrittore, a letto, assistito da Celeste Albaret, mentre si affanna a mettere la parola fine al suo infinito (anche in senso letterale) ciclo romanzesco. Nella messa in scena di Ruiz, il passaggio dall’ultimo atto di scrittura alla trasposizione cinematografica diventa una sorta di rievocazione retrospettiva attuata attraverso un elementare accorgimento visivo: un gruppo di fotografie viene sfogliato dal malato e mentre appaiono le immagini di amici e parenti del Proust reale e del Narratore, si sovrappongono le voci dei personaggi che saranno al centro del successivo racconto filmico.

          Una sequenza simile – “reminescente” ma anche ambiguamente capace di mescolare personaggi reali e appartenenti alla finzione filmica –  è presente, e con un ruolo simile, anche nell’ultimo film di Ingmar Bergman, Sarabanda, le cui prime immagini ci presentano un tavolo ingombro di fotografie dove Liv Ulmann esplora il passato esistenziale della coppia, ormai anziana, descritta vent’anni prima in Scene di un matrimonio. Ma tra le fotografie sono mescolate – e lo sapremo solo nel finale, quando la stessa sequenza chiuderà il film – anche immagini che appartengono al racconto appena concluso. È stato Godard, d’altro canto, a spiegare che il cinema di Bergman è “una gigantesca e smisurata meditazione a partire da un’istantanea”. 

          In Proust, dunque, gli effetti di accumulazione sensoriale e meditativa “a partire da un’istantanea” sono già delle “madaleines” o delle varianti delle reminescenze più note, legate ad oggetti, sensazioni, rumori.

         Anche in questo caso, basterà ricordare un’altra scena “topica” del romanzo, il ritratto fotografico della nonna, eseguito da S. Loup a Balbec, che diviene progressivamente il ricordo della persona amata, quando questa morirà, e poi il segno visivo che si trasfonde nella madre che invecchia, fino ad una rivelazione successiva e quasi dolorosa: la nonna, che stava già male, volle a tutti costi che si facesse quel ritratto (e si vesti e si truccò come per una posa pittorica) per lasciare al nipote una sorta di ricordo iconico forte, analogo agli “spessori d’arte” che ricercava nelle riproduzioni dei capolavori estetici del passato.

        La mescolanza  di suggestioni attinte al vissuto – proprio e dei diversi personaggi del romanzo – e alla storia dell’arte (ma anche al teatro e alla letteratura) è d’altronde la base dell’immaginario mentale della Recherche. Il suo punto culminante sta nel raffronto – al limite dell’ironia – tra il volto di Odette e il ritratto della figlia di Jettro, personaggio biblico dipinto da Botticelli e visibile nelle pareti laterali della Cappella Sistina a Roma. Swann cercherà una motivazione al suo irrazionale innamoramento proprio in quel raffronto estetico; è evidente che l’invenzione letteraria non poteva che essere determinata da una riproduzione di quell’opera d’arte, visto che Proust non visitò mai Roma.

       La soggettivazione dell’esperienza visiva, anche di quella diretta, è d’altronde teorizzata apertamente e quasi dolorosamente in un altro celebre passo in cui il Narratore evoca i viaggi mancati in Normandia (a Balbec) e nelle città d’arte italiane, immaginando quei luoghi dalle “meravigliose” descrizioni di  Swann e dalle illustrazioni di libri.

       Ecco ciò che scrive il protagonista/narratore: «Per farli rinascere (quei luoghi-ndr), ora, mi bastava pronunciare quei nomi: Balbec, Venezia, Firenze, dentro i quali aveva finito per accumularsi il desiderio ispiratomi dai luoghi che essi designavano. […] Ma se quei nomi assorbirono per sempre la mia immagine di quelle città, non lo fecero senza trasformarla, senza sottometterne la ricomparsa alle loro specifiche leggi; e, per conseguenza, la resero più bella, ma anche più differente da quel che le città della Normandia e della Toscana potevano essere in realtà, e accrescendo le gioie arbitrarie della mia fantasia,  aggravarono la futura delusione dei miei viaggi.» Questo brano fa parte dell’ultimo capitolo del primo romanzo, intitolato non a caso, Nomi di paese: il nome. Si contrappone concettualmente ad un altro capitolo della Recherche, il secondo di All’ombra della fanciulle in fiore. Il titolo è, questa volta, Nomi di paese, il paese e racconta il primo vero soggiorno  a Balbec. 

       La contrapposizione tra la descrizione diretta e l’immaginario che i nomi si portano appresso è però solo apparente: la Balbec proustiana è, appunto, un’immagine mentale,  una stratificazione continua di ricordi e di impressioni in cui nomi e cose si giustappongono secondo un ordine puramente evocativo e sensoriale.

2. Cronofotografie: la pluralità e l’indeterminatezza dei personaggi della Recherche.

        La meditazione fotografico-visiva ha però altre implicazioni, molto più consistenti, che ci riportano proprio alle riproducibilità tecniche novecentesche.

Sono molti i saggisti ad avere sottolineato la conoscenza – e la coscienza – da parte dello scrittore, dei meccanismi di percezione legati alla diffusione della fotografia, che progressivamente sostituisce il ritratto pittorico come modello di rappresentazione sociale dell’aristocrazia e soprattutto della borghesia, come si può verificare in un bel volume di Luciano De Maria, Album Proust, pubblicato nel 1987.

        Su un piano diverso – il rapporto letteratura/immagini – Mieke Bal (Atti di sguardo: Proust, il romanzo e la cultura visiva, 2003) ha invece analizzato la pregnanza visiva di una tipica descrizione proustiana, al confine tra pittura e fotografia: «Un’immagine vale mille parole. Potremmo capovolgere questo vecchio cliché, e dire che una frase di Proust vale mille immagini […]. Alla luce dell’interesse attuale per la cultura visiva e del diffuso luogo comune secondo il quale la letteratura sarebbe meno importante del cinema e dei nuovi media, voglio ragionare sul rapporto tra parola e immagine e dimostrare che la Recherche ci fa capire molte cose sulla cultura contemporanea, così satura di stimoli visivi. L’attualità di Proust emerge così da un tema teorico che, a prima vista, è difficile affrontare partendo da un testo letterario: la visione, ovvero, come si dice oggi la cultura visiva. E il punto è che Proust sa dire cose profonde sull’esperienza dell’immagine e sulle culture nelle quali prevale la dimensione visiva. Chi vuole fondare gli studi di cultura visiva su una teoria dello sguardo farebbe bene a rileggerlo.»

        La successiva analisi si occupa dalla straordinaria descrizione di Robert de Saint Loup a Balbec (prima che il Narratore ne diventi amico), incentrata sulla “solarità” del personaggio. Uomo-sole lo definisce Bal, intendendo con questo termine anche la centralità del personaggio, doppio del Narratore e nascostamente “desiderato”  come un Apollo. 

        La scena è costruita attraverso una vera e propria dinamica foto-pittorica: la cornice (l’azzurro verticale degli interstizi tra le tende e quello orizzontale del passaggio centrale), la macchia di colore uniforme (il giallo solare attenuato dalle tende), il veloce passaggio del personaggio – che tornerà spesso, come si è visto, a definire “cinematicamente” i movimenti di Saint-Loup – assorbito dal giallo solare, egli stesso di pelle e capelli biondissimi (termini di Proust), ma pur tuttavia distinguibile per il portamento, per l’incedere e per il vestito bianco e svolazzante. Un’ulteriore traccia di colore che si stempera in un vero e proprio quadro, debitore non già ai citatissimi Rembrandt e Vermeer, ma piuttosto a Turner, d’altro canto non estraneo alle passioni proustiane. 

        La percezione direttamente fotografica della maggior parte dei personaggi del romanzo – o comunque dei principali, quelli sui cui poggia l’intera architettura della Recherche – è altresì analizzata  in due saggi di Valerie Dupuy e e Jean Pierre Montier apparsi in un volume antologico dal significativo titolo Proust et les images (2003 Rennes).In Dupuy si mettono inizialmente in contrapposizione la fotografia e il cinema: l’una troppo rigida per poter costruire un “continuum” romanzesco; l’altra, essendo una semplice “sfilata di eventi” (il termine è, appunto, di Proust che ne sminuisce la portata rappresentativa), impossibilitata a riprodurre ciò che la nostra memoria ha elaborato dopo aver visitato un luogo, un paese, aver conosciuto e frequentato delle persone. La via di mezzo “proustiana” è invece il “precinema”, la cronofotografia: una pellicola impressionata che non diventa mai sequenza cinematografica vera e propria ma che si limita ad esporre allo spettatore diversi istanti – ben separati gli uni dagli altri da uno spazio bianco che simbolizza il vuoto percettivo – di un personaggio, di un oggetto, di un paesaggio, di una città.

            Così Proust – prosegue Dupuy – non userà mai le celebri descrizioni balzachiane a tutto tondo capaci di restituirci, nel pieno rispetto della narrazione onnisciente ottocentesca, ambienti e personaggi come se si dovesse spiegare tutto al lettore, ma piuttosto realizzerà delle “istantanee” di un personaggio o di un paesaggio, cioè impressioni che cambiano nel corso del tempo e sulle quali si sovrappongono altre istantanee e altre riflessioni. Solo in una lunga serie retrospettiva, queste impressioni potranno essere rielaborate o, per usare il linguaggio tecnico della fotografia, “sviluppate”.

         Ora è noto che i principali personaggi proustiani sono appunto caratterizzati da una molteplicità esistenziale. Chiave di volta dell’intera architettura del romanzo, la presenza seriale di queste figure è anche una sorta di rappresentazione plurima, parallela e, per certi versi, contrapposta, al  divenire storico della Recherche: la vita familiare, la mondanità dei salotti parigini, le due estati di Balbec, le grandi discussioni sul caso Dreyfus, la Grande Guerra.

        La regina della molteplicità è certamente Odette, le cui trasformazioni percorrono un lungo arco temporale, dal ritratto giovanile dipinto da Elstir (Miss Sacripant) al suo ambiguo passato scoperto dalle indagini di Swann; dall’incontro adolescenziale della signora in rosa, amante di uno zio del Narratore, alle presenze assidue come vera e propria diva nel salotto di Madame Verdurin; dal rapporto con Swann al  successivo matrimonio con Monsieur de Forcheville; ed infine, i finali di carriera come amante del Duca di Guermantes e come anziana regina dei nuovi salotti post bellici.

       La molteplicità di Odette, vero simbolo femminile dell’intero ciclo romanzesco, non è però sempre direttamente legata all’esperienza del Narratore ma ad un intreccio di esperienze e di sguardi diversi, in primo luogo quello di Swann,  doppio del Narratore, le cui dolorose e disastrose esperienze sentimentali anticipano le proprie. Ed è proprio per il suo distacco emotivo e soprattutto percettivo – o comunque di secondo grado – che il protagonista non sarà mai in grado di “penetrare” nelle sue esperienze sentimentali, l’eterno femminino anche se, in questo caso, ha una  logica chiarissima, razionale, segnata da un’evidente, benché affettuosa, misoginia che, in altre figure più legate all’intimità del protagonista, si trasforma nell’impossibilità di penetrare i segreti del mondo femminile: ad esempio quelli fondamentali di Gilbert, nel primo volume, Dalla parte di Swann, e, ovviamente, di Albertine, l’ambigua “fanciulla in fiore” amata/odiata dei romanzi centrali della “Recherche”.

        Un’altro personaggio centrale, Oriane de Guermantes, questa volta parzialmente connotata da un innamoramento puramente fantastico da parte del Narratore, è invece l’esatto contrario della molteplicità: la mitologia aristocratica la confina in una rappresentazione rigidissima, eppure sempre segnata da accumuli percettivi. 

       La prima immagine è, non caso, la figura di una sua presunta antenata, Genoveffa di Brabante, proiettata dalla lanterna magica nella pareti della casa di Combray, durante l’infanzia; sono quindi le vetrate della chiesa del paese a raccontare e a rafforzare la stessa leggenda. Progressivamente, la lunga lista di “istantanee” (l’apparizione in chiesa, poi a teatro, quindi nel quartiere di Saint Germain e poi nella nuova casa in cui va ad abitare il Narratore) viene raffrontata con i successivi incontri diretti, i quali fissano definitivamente l’idea di un femminino opposto a quello proteiforme  di Odette ma anche sterile nella sua rigidità simbolica. Non caso, nel finale, durante il “matinèe” Guermantes, Oriane sarà l’unico personaggio a non essere segnato in profondità dal Tempo, così come accade a tutti gli altri personaggi.

          Diversamente da Oriane, Albertine, la donna amata dal Narratore, é sempre molto esposta e percepita dal Narratore/protagonista proprio sul piano visivo. La prima immagine delle “fanciulle in fiore” che giocano nella diga di Balbec è già un descrizione mutuata da un quadro impressionista in cui la stessa attrazione sentimentale  è ancora incerta: le diverse ragazze che stanno con Albertine sono tutte fonte d’innamoramento adolescenziale, il che equivale alla negazione dello stesso innamoramento. Altre immagini, più o meno collegate al mistero di Albertine, sono ancora più marcate in senso fotografico: uno dei traumi che segneranno l’esistenza sentimentale del Narratore è la visione istantanea del celebre oltraggio al ritratto del compositore Vinteuil che la figlia del musicista e l’amante di lei compiono di fronte alla finestra, prima di avere un amplesso. Anche questa scena potrebbe essere commentata secondo l’ottica che Mikie Bal usa per l’apparizione di Saint Loup a Balbec. Infine, un altro trauma è costituito dal ballo appassionato tra Albertine e l’amica, a Balbec, commentato maliziosamente dal dottor Cottard, in presenza del Narratore.

        Il contrasto tra l’emotività dovuta ad una immagine turbativa e l’incertezza percettiva dello stesso “atto di sguardo” – sono altresì presenti nei rapporti con Gilberte (il gesto dell’adolescente, a Combray, che il Narratore interpreta falsamente come ostilità; la visione fugace della stessa ragazza ai Champs Eliseè in compagnia di un altro ragazzo, che poi si scoprirà essere Lea, una nota lesbica), e quindi  con Saint Loup e Charlus. Questi ultimi, assieme a Albertine, hanno il privilegio non solo di essere molteplici, ma piuttosto di sfuggire, anche in uno sviluppo retrospettivo, ad un ragionevole quadro d’assieme che rimetta in piedi la serie fotografica in una cosciente consapevolezza della vera natura dei personaggi.

        Il mistero di Albertine, però, non verrà chiarito neanche dopo la sua morte – benché le testimonianze sui suoi segreti inconfessabili riproporranno il “refrain” delle trasgressioni, delle seduzioni, degli amplessi etero e omosessuali  – mentre la rivelazione della natura di Saint Loup e di Charlus sarà un ennesimo e decisivo trauma visivo: Saint Loup che fugge dal bordello di Jupien, “inquadrato” fuggevolmente dal Narratore, Charlus spiato da un apertura sul muro mentre, in piena eccitazione, viene frustato a sangue da un soldato.

       D’altro canto, né la scrittura ad alta densità visiva (è stato Umberto Eco a scrivere che furono i registi cinematografici ad ispirarsi ai linguaggi descrittivi del romanzo ottocentesco), né l’indeterminazione sono  un’esclusiva proustiana. Conrad – che non a caso, scrisse un bel epitaffio funebre per la morte di Proust, riconoscendovi il primato dell’introspezione psicologica e la rivelazione  “un passato che non somiglia a quello di nessun altro” – e James, i cui scritti erano ben conosciuti e ammirati da Proust, basarono la loro filosofia letteraria o sui referti testimoniali o proprio sull’indeterminazione di fatti o personaggi colti da un osservatore/narratore di prima o di seconda istanza.

      Ma, seguendo il saggio di Jean Pierre Montier, si può ben dire che è specificamente nella Recherche a farsi avanti l’idea che l’indeterminazione, chiave di volta di molta letteratura novecentesca, sia legata ad una specifica pratica percettiva di secondo grado: la riproduzione tecnica della realtà. Montier e prima di lui Brassai sottolineano la presenza di una forte coscienza del mezzo da parte dello scrittore attraverso l’uso di un vocabolario tecnico specifico (microscopio, telescopio, radiografia, kinematoscopio) in chiave allegorica.

      Luciano De Maria ha evidenziato inoltre che nel lessico della Recherche vi sono spesso descrizioni mutuate dagli esperimenti di Muybridge e di Marey, tra i primi sperimentatori della cronofotografia. Uno di questi è presente in I Guermantes, quando Saint Loup aggredisce con dei pugni un uomo che gli ha fatto delle profferte sessuali in strada. Il narratore descrive appunto il movimento dell’amico “isolando” le posizioni successive delle braccia del personaggio, come si vedeva nelle immagini del Kinetoscopio, peraltro citato già in La strada di Swan.

          Infine, di nuovo Montier, facendo leva sull’esitazione o sull’incertezza percettiva che accomuna la “messa in scena” dei diversi personaggi della Recherche – e di cui si è già parlato – accenna anche ad una sorta di errore ottico come allegoria di un’incapacità di percezione psicologica. Errore che, in fase di sviluppo – cioè attraverso la riflessione successiva del Narratore – viene certamente evidenziato senza che sia possibile, altresì, alcuna correzione.

        Si potrebbe aggiungere, sulla scia delle “disillusioni” che marcano fortissimamente gli ultimi romanzi della Recherche, che sia la percezione fotografica che il successivo sviluppo mettono lo scrittore nella condizione in cui si trova il protagonista di un celebre film di Michelangelo Antonioni, Blow Up. Difatti, la serie fotografica che il protagonista ha realizzato in un parco pubblico fa intuire – seguendo il noto processo di cooperazione interpretativa – che qualcuno, nascosto, aveva una pistola puntata verso alcune figure che amoreggiavano. La successiva prova testimoniale è un cadavere ma la prova, in qualche modo giudiziaria, legata alle istantanee fotografiche, resta incerta: più aumenta la ricerca del dettaglio, attraverso l’ingrandimento (il “blow up” del titolo), più diminuisce la definizione e dunque il quadro, i personaggi, si fanno indeterminati. Assomigliano, dice un’amica del fotografo, ad un quadro astratto, fatto di punti e linee. 

        I punti e le linee, benché mai astratte, equivalgono dunque, ai caleidoscopi che si presentano, retrospettivamente, al Narratore in Il tempo ritrovato: sono tutti i luoghi, i volti, le figure, le scene, i traumi, le rivelazioni che solo in una “mise en abyme” squisitamente letteraria potrà essere ricomposta.

       Per tornare a Montier, la sua conclusione è che Proust sia stato uno straordinario “lettore/analizzatore” di alcuni strumenti novecenteschi che hanno cambiato la percezione del mondo e che questi siano appunto alla base della modernità della Recherche.

3. Slittamenti interpretativi: cronofotografie o sequenze filmiche?

       Seguendo Eco e Calvino, la visività letteraria, in ogni tempo e in ogni luogo (da Dante a Shakespeare, da Cervantes a Proust, da Manzoni a Tolstoj), è stata naturalmente collegata ad un cinema mentale. Inesistente, prima dei Lumiere (o più specificamente, prima dei romanzi cinematografici di Griffith), ma quasi sempre ricercato nell’analogia, puramente evocativa, tra scrittura e immagine, ovvero nel celebre e discusso “equivalente visivo” della scrittura, adottato da gran parte degli sceneggiatori che affrontano opere letterarie.

        È dunque facile che un qualunque lettore proustiano colleghi l’idea di inquadratura segnalata dagli studiosi che abbiamo citato in precedenza non già alla fotografia ma al cinema. Le percezioni del Narratore sono infatti, a tutti gli effetti, delle sequenze cinematografiche o dei frammenti di esse isolati dal loro “continuum”. 

         Però, anche fuori dalle “istantanee” riservate ai personaggi, nella Recherche il cinema fa la sua comparsa in alcuni momenti di scansione del paesaggio. 

        L’esempio più noto riguarda la descrizione dei campanili di Martinville, osservati e ricordati mentre il Narratore adolescente torna in calesse a Combray: forme e posizioni mutano, a seconda delle diverse prospettive visive e il lettore ha davvero l’impressione che Proust abbia avuto tra le mani una macchina da presa e che si sia, successivamente, soffermato a lungo, ad un banco di montaggio, per rivedere ed incollare le sequenze e poi riportare la descrizione dei campanili sulla carta. 

        A questo punto, siamo entrati in un terreno spinoso: il cinematografo fa la sua comparsa nella Recherche solo nell’ultimo volume, Il tempo ritrovato. Vi è un primo momento, durante la guerra, in cui il Narratore vagando nella città oscurata a causa del pericolo dei bombardamenti tedeschi, s’imbatte in un locale aperto e, distrattamente, annota che gli avventori si stavano avviando verso un cinematografo. Verso la fine, in un momento chiave del romanzo, quasi parasaggistico, ecco invece il raffronto polemico cinema/letteratura sintetizzato in tre brevi frasi che appaiono in alcune pagine ravvicinate:

         «C’era chi pretendeva che il romanzo fosse una sorta di sfilata cinematografica delle cose. Questa concezione era assurda. Niente si allontana da ciò che abbiamo percepito in realtà più d’una tale visione cinematografica» «Ciò che chiamiamo la realtà è un certo rapporto fra le sensazioni e i ricordi che ci circondano simultaneamente – rapporto escluso da una semplice visione cinematografica, la quale, dunque, tanto più si allontana dal vero quanto più pretende di limitarsi ad esso –, unico rapporto che lo scrittore deve trovare per incatenare per sempre l’uno all’altro, nella sua frase, i due diversi termini» «Se la realtà fosse una sorta di residuo dell’esperienza, più o meno identica per ciascun dato come quando diciamo: un tempo cattivo, una guerra, un posteggio di carrozze, un ristorante illuminato, un giardino in fiore, tutti sanno cosa vogliamo dire; se la realtà fosse questo, una specie di film di tali cose sarebbe certo sufficiente, e lo “stile”, la “letteratura” che si discostassero dai loro semplici dati sarebbero un artificioso fuor d’opera»

       Mutuate da Bergson, queste osservazioni si orientano non già verso la riflessione sui meccanismi della memoria e della ricomposizione dell’osservazione del reale nel pensiero umano (che era il vero terreno di osservazione del filosofo, anche nella definizione, adottata da Proust, di sfilata cinematografica delle cose), ma su quello della rielaborazione artistica, cioè una ricomposizione diversa e opposta rispetto alla memoria cosciente.

        A lungo si è dibattuto, tra gli studiosi, quali fossero le specifiche competenze dello scrittore, ovvero le sue frequentazioni cinematografiche: era andato oltre la visione delle attualità Lumiere, primo e immediato collegamento con la definizione di “sfilata cinematografica”?

       Il problema sembra però mal posto. A prescindere dalla sua effettiva frequentazione dei locali cinematografici, soprattutto nel secondo decennio del secolo – e di ciò non c’è traccia neanche negli innumerevoli studi biografici – l’ostilità di Proust, che pure amava l’intrattenimento popolare, come il cafè-chantant o il varietà, non è dissimile da quella riscontrabile nella maggior parte degli scrittori dell’epoca, che paventavano proprio la concorrenza del cinema sul piano dell’affabulazione narrativa.

        La svalutazione estetica del cinematografo non significa però che lo scrittore non fosse cosciente dell’ottica  cinematografica – e il termine va preso anche in senso letterale – delle proprie percezioni. Però valutava negativamente il peso della restituzione rappresentativa  rispetto alle possibilità di sviluppo e di scavo interiore, anche dal punto di vista visivo, offerte dalla letteratura. Così siamo legittimati,  dopo cent’anni di tecniche e linguaggi filmici sviluppati ben oltre le ipotesi pessimistiche dello scrittore, a disegnare una mappa non già dei coscienti rapporti di scambio tra cinema e letteratura in Proust, ma piuttosto dei collegamenti tra la visività della Recherche e il linguaggio filmico contemporaneo. L’aggettivo “contemporaneo” definisce ovviamente una linea di frattura storica. Si deve ricordare che la vera e propria narrazione cinematografica – cioè il romanzo filmico, inventato da Griffith, per il quale Ejzenstein scomoda la scrittura dickensiana come modello narrativo – “prendeva per mano” lo spettatore, spiegando e rispiegando, anche attraverso lunghe didascalie, chi fossero i protagonisti, dove abitassero, e spesso persino i loro pensieri. 

          La rigidità formale dei primi cineromanzi complessi e di lunga durata si semplifica sempre più nel corso degli anni Venti ma ha sempre  come obiettivo principale la piena decifrazione dei contesti, delle trame, degli accadimenti, dei rapporti tra i personaggi. Le stesse tecniche di ripresa e di montaggio, cosiddette classiche, ulteriormente semplificate dall’avvento del sonoro, sono quasi dei brevetti industriali: campi/controcampi in piano medio o ravvicinato nei dialoghi, montaggi paralleli, alternati o in contiguità, frantumazioni analitiche degli spazi, primi piani, lunghi e medi, servivano essenzialmente a permettere decifrazioni essenzialmente denotative, diventarono così il linguaggio “tout court” del film narrativo – fatti salvi gli sperimentalismi e le avanguardie – per ragioni più legate al modo di produzione seriale che alla creatività dei singoli registi. Come scriveva Ejzenstein, il modello strutturale della nuova narratività visiva non poteva essere il romanzo novecentesco, d’altronde definito a posteriori come tale, ma piuttosto la grande letteratura popolare dell’Ottocento. Il che non vuole certo significare che non sia possibile ritrovare tecniche proustiane nel cinema pre “nouvelle vague”: il “porre oggetti diversi in rapporto tra loro” è la base degli artifici del montaggio – così si esprime la studiosa francese Ropars-Wuilleumier – senza il quale non esisterebbe narrazione cinematografica; il montaggio associativo eisensteiniano “incatena” due immagini non legate da rapporti di contiguità per creare un concetto; ed infine, come sottolinea nel suo saggio lo stesso Montier, anche la reminescenza, con il suo viaggio virtuale nel passato è una tecnica che ha a che fare con il cinematografo e che non è affatto sconosciuta nel cinema classico. Infine, al di là delle tecniche, se volessimo soffermarci sulla disprezzata oggettività del cinematografo, potremmo rifarci a tante osservazioni di psicologia della percezione applicabili anche alle “sfilate cinematografiche”.

Infatti, il rapporto tra la realtà percepita durante la visione di qualunque film e il suo “fissaggio” mentale fa parte di una memoria rielaborata che gli psicanalisti hanno definito un vero e proprio “transfert”, senza il quale non si spiegherebbe neanche il successo popolare del cinematografo.

Questo meccanismo, prima di essere analizzato dal semiologo Christian Metz nel suo saggio Cinema e psicanalisi (1977(, è stato commentato magnificamente da Luis Buñuel in un suo saggio del 1958: «[…] il buio che invade a poco a poco la sala equivale all’azione di chiudere gli occhi. E allora che comincia sullo schermo e al fondo dell’uomo l’incursione notturna dell’inconscio; le immagini, come nel sonno, compaiono e scompaiono fra dissolvenze e oscuramenti; il tempo e lo spazio si fanno flessibili, si contrappongono e si dilatano a volontà,  l’ordine cronologico e i valori relativi di durata non corrispondono più alla realtà; l’azione ciclica deve compiersi in alcuni minuti o in più secoli; i movimenti accelerano i ritardi […]»

           Il meccanismo non è dissimile da quello descritto dallo stesso Proust in Dalla parte di Swann. Spettatore (e regista), nell’infanzia, dello spettacolo della lanterna magica che mostrava le avventure di Golo, rapitore di Genoveffa di Brabante, lo scrittore descrive la suggestione fantastica dello spettacolo, introducendo un termine, “trasverterbrazione”, cioè materializzazioni di immagini (quelle del cavaliere e della dama) e di movimenti entro le pareti, le tende, le maniglie della sua camera, fino a riempire di elaborazioni fantastiche l’intero spazio fisico e mentale percepito dal bambino. 

           La percezione degli spettatori cinematografici dell’epoca, come si è detto, non doveva essere diversa. Una grande attrice sedotta dal cinema, Eleonora Duse  – che forse Proust avrà visto recitare negli stessi anni in cui veniva sedotto dalla Berma/Bernhardt/Rejane – definiva il cinema, sulla scia delle prime  teorizzazioni sull’arte del film, come “un vetro che vede le anime”. Definizione più poetica che teorica e applicabile pienamente alle poche sequenze di Cenere in cui la stessa attrice interpreta con gesti misuratissimi e primi piani intensissimi, il dolore di una madre. 

Ma in quella definizione c’è anche l’idea che le immagini filmiche, più che manifestare una semplice estensione dell’esperienza, celino una profondità inconscia, delle sensazioni che la stessa attrice, di fronte ad un film come Cristus (1916) di Antomoro, descrive così: «[…] l’alba che nasce, e il bambino che spunta, e certi piccoli fiori che dondolavano al vento, sotto i passi di Maria, quando Maria si ferma […].», come riporta Olga Signorelli in un saggio del 1949. 

     Insomma, non è detto che il comune (o il non comune) spettatore non possa porsi di fronte a certe immagini cinematografiche come in un “sogno”, cioè ricrearle nella profondità della propria mente, rimodellarle secondo un “io” creativo, come difatti pensavano i surrealisti, Buñuel in testa. 

Considerazioni per certi versi analoghe sono quelle di Antonio Costa che, nell’introduzione ad una raccolta di saggi su alcune pellicole del primo Novecento “ritrovate” negli archivi, cita e, in qualche modo, contesta le opinioni negative di Proust sul cinematografo. Soprattutto le rilegge alla luce di un romanzo di Claude Mauriac, L’Oubli, a cavallo tra le suggestioni proustiane e “l’ecole du regard”. Mauriac cita infatti un film di montaggio del 1948, Paris 1900 di Nicole Vedres, definendolo “la Parigi di Proust senza Proust”, ma aggiungendo che quella Parigi cinematografica conserva un “po’ della materia prima di chi lo ha utilizzato e ci fa percepire il tempo, prima di essere perduto e ritrovato.”

           Per Costa, dunque «l’esperienza del film, per vasti pubblici del Novecento, è stata tempo vissuto, quindi destinata a diventare tempo perduto. E improbabile che  ci possa essere recupero di un tempo vissuto individuale, psicologico, soggettivo (per questo ci vuole l’arte del romanziere). L’esperienza del film può diventare  Tempo ritrovato quando si riesca a riattivare (almeno in parte) quell’intreccio di relazioni che stanno alla base della genesi e della fruizione del film. »

         In un altro saggio, di Roberto Campari (I film della memoria, 2005), appare una riflessione analoga: «Il cinema a volte può assumere persino la funzione della famosa madeleine, quella appunto di risvegliare la memoria involontaria (…) tornando a rivedere un film visto nel passato noi spesso riusciamo a rivivere sensazione, sentimenti, pensieri della prima volta in cui lo abbiamo conosciuto (e questo attiene in un certo senso alla memoria volontaria, perché ne siamo consapevoli e spesso persino ce lo aspettiamo), ma può accadere – e infatti accade – che un film magari visto nell’infanzia ci riporti all’improvviso modi di vivere, oggetti, situazioni, persino parole che credevamo di aver perduto e che ritroviamo, invece all’improvviso con la stessa felicità di cui parla lo scrittore.»

        Sia i concetti espressi da Costa che quelli di Campari sono poi gli stessi che Raul Ruiz utilizza in Il Tempo ritrovato, nella sequenza, ripresa dal brano romanzesco, in cui gli spettatori di un “cafè-restaurant” si preparano ad assistere ad una proiezione cinematografica. Trasformando l’evento, menzionato di sfuggita e quasi con fastidio da Proust, Ruiz fa esibire il Narratore bambino con una macchina da presa, sostituto contemporaneo della  lanterna magica, che proietta sequenze documentarie sulla Grande Guerra. Quelle immagini  s’impongono appunto come “tempo vissuto tragicamente”, anche se lontani dal fronte, dagli spettatori delle città europee. 

Per noi spettatori contemporanei, invece, attraverso l’intreccio di relazioni di cui parla Costa e attraverso un meccanismo reminescente, a volte indiretto, frutto di un immaginario storico collettivo, quelle stesse sequenze documentarie sono un vero e proprio “tempo ritrovato”.

4. Proust sullo schermo: linguaggi, autori, modelli.

        La vera e propria spendibilità dei linguaggi proustiani si attua, come si è detto, nel dopoguerra e non è detto che appartenga ad una cosciente derivazione letteraria.

Rare sono, ancora oggi, le trasposizioni della Recherche – totali o parziali – e divise tra ricerca della spettacolarità scenica (le varie “soirée” e “matinée”, i turbamenti amorosi, le ricostruzioni storiche, la guerra) e l’estrema cripticità, sia pure di grande interesse filmico e estetico. Tale è appunto, il film di Raul Ruiz precedentemente citato. È invece possibile ritrovare Proust in una lunga lista di autori “fondanti” del dopoguerra che esplicitamente si pongono l’obbiettivo di colmare il gap linguistico tra la letteratura novecentesca e il cinema. Ma soprattutto, dopo il tramonto del cinema classico, a partire dal dopoguerra inoltrato, la lista dei proustianesimi è abbastanza lunga e comprende anche i linguaggi seriali ad alta frequentazione popolare, soprattutto giovanile, che non può dirsi esente da “madaleines” visive, associazioni mentali ed altre intrusioni derivanti da pratiche letterarie e ormai anche audiovisive.

        Andando con ordine, possiamo tracciare tre mappe approssimative: la prima riguarda le caratteristiche degli adattamenti proustiani come “chiave” di lettura della cinematograficità della Recherche. La seconda è una lista di autori che potremmo definire, con buona approssimazione, proustiani. La terza un elenco, ovviamente incompleto, di suggestioni proustiane rintracciabili in opere d’autore e di genere abbastanza recenti.

      La prima lista, irritualmente, mette insieme sia alcune sceneggiature  non trasformate in film sia le poche pellicole realizzate. Nell’ordine, il progetto Flaiano (primo tassello dell’inseguimento della Recherche da parte del cinematografico, databile attorno al 1964); la sceneggiatura (o le sceneggiature) di Luchino Visconti del 1971; il copione di Harold Pinter e Joseph Losey che, nel 1978, chiude la prima fase di progettazione d’autore ad alto profilo produttivo e spettacolare.

      La serie filmica s’inaugura nel 1981 con Celeste di Percy Adlom (una costola proustiana che mette in scena gli ultimi giorni dello scrittore accanto alla fedele governante Albaret) e Un amore di Swann (1984) di Volker Schlondorff (sceneggiatura di Jean Claude Carriere e Peter Brook), prosegue quindi, nel 1999, con Il tempo ritrovato di Raul Ruiz e La prigioniera di Chantal Ackerman (un’interessante modernizzazione dell’omonimo romanzo centrale) e si chiude, provvisoriamente, con Le intermittenze del cuore di Fabio Carpi (2003), che trasfonde la propria autobiografia artistica nelle suggestioni, altrettanto autobiografiche, della Recherche. 

       Infine, recentissimo, è un film televisivo francese – prodotto da France2 con Arte – che tenta  di condensare in quattro ore, ovvero in due puntate, l’intera Recherche. 

Il titolo è ovviamente A la recherche du temps perdu e l’autrice Nina Companeez, di cui non conosciamo altre opere. Molto criticato e poco visibile fuori dalla Francia, il film è stato però giudicato benevolmente dal critico proustiano Jean-Yves Tadiè che ne lodato fotografia, scenografia e ambientazione ma ha criticato l’eccessivo “restringimento” del lungo romanzo esistenziale e quasi filosofico di Proust.

      È anche facile, per un semplice lettore della Recherche, individuare la clamorosa esclusione dal racconto di un personaggio come Odette, icona di una femminilità che scandisce, come fosse un’immagine turbativa ma indimenticabile, il concetto di inafferrabilità dell’amore e della passione. Con la sua assenza, perdono ogni valore molti altri personaggi, tra i quali soprattutto Swann, ridotto ad una presenza puramente testimoniale che parla dell’affare Dreyfuss, mai esplicitato apertamente nel romanzo.

      Altre ricostruzioni fastidiose sono le “fanciulle in fiore” e il loro esplicito “lesbismo” – con tanto di immagini festose delle loro nudità e dei loro amplessi – che non impedirà ad Albertine di convivere con il Narratore. Tra l’altro queste sequenze sono certamente le più persuasive per capire le “intermittenze del cuore” del protagonista/narratore, alle prese con un innamoramento “impossibile” e segnato dalle continue paure di essere tradito dalla sua convivente ma anche di non essere capace di “possederla” se non quando lei è addormentata e dunque incapace di fargli del male.

      È egualmente interessante, sul piano linguistico, la scelta di sovrapporre ai dialoghi i monologhi interiori del Narratore che finiscono per diventare progressivamente il “suo tempo perduto e ritrovato”.

      In ogni caso, l’interesse del film sta in una semplice considerazione che riguarda il mezzo (la televisione) ma non il messaggio o la forma del messaggio proustiano: usare la Recherche come un romanzo come gli altri per divulgarne l’essenza attraverso la tv, come, d’altronde è sempre successo con altri grandi romanzieri come Dostoevskij o Tolstoi o Balzac o il nostro Manzoni. Insomma, togliere a Proust l’aura sacrale. 

Tutti questi materiali si possono forzatamente dividere – a misura  del nostro discorso – in due aree: da una parte quelli che, a partire da Visconti, cercano soprattutto la ricostruzione di un’epoca, non senza inserire (come nel film della Ackerman e nell’ultimo titolo citato) la patologia sentimentale del protagonista. Dall’altra, quasi in opposizione, altri materiali, finiti o meno, che pur senza respingere le suggestioni storico-mondane del ciclo romanzesco,  incentrano le trasposizioni sullo sguardo e sull’intensa “revèrie” dello scrittore/narratore, ponendosi così nell’ottica dell’io vedente e  trasformante che abbiamo riassunto nelle pagine precedenti.   Questa linea interpretativa è ben dentro l’atmosfera di sfida alla letteratura novecentesca che molti autori di cinema portavano avanti fin dai primi anni del dopoguerra. 

          Queste ultime considerazioni ci conducono al secondo punto, che si potrebbe aprire con un celebre saggio del critico francese Jean Bourgeois, pubblicato dopo l’uscita europea di Quarto Potere, nel 1946, intitolato Le cinema a la recherche du temps perdu.  La presunta comunanza tra il film “rivoluzionario” di Welles e la Recherche non era un tema inedito. Lo stesso regista, in un intervista degli anni Sessanta, ricordava – e polemicamente non gradiva l’accostamento – che, all’indomani dell’uscita americana del suo film, alcuni critici scrissero che l’opera era debitrice al romanzo dello scrittore francese. Senza entrare in merito alle controversie critiche, relative ad alcuni “topoi” del film (le lunghe sequenze che avvolgono i personaggi e gli ambienti come fossero sguardi proustiani, la ripetuta prospettiva memoriale, la “madaleine” visiva che apre la pellicola), quel che è importante è l’apertura di un discorso che collega, finalmente, la narratività letteraria novecentesca a quella filmica. 

        Negli anni successivi, anche prima dell’esplosione delle “vagues”, molti saranno i protagonisti di un proustianesimo filmico, consapevole o meno. I primi nomi che occorre fare, anche in relazione a quello che Andrei Tarkovskij, in Scolpire il tempo (1984), chiama “l’enorme edificio del ricordo proustiano resuscitato dalle immagini cinematografiche”, sono quelli di Ingmar Bergman e Federico Fellini, cineasti fortemente autobiografici e memoriali, capaci o di rubare le più note suggestioni proustiane o di adattare le proprie matrici culturali (per Bergman è facile fare il nome di un altro “viaggiatore nel tempo e nello spazio”: il conterraneo Strindberg) ad una preminenza dell’io vedente, immaginante e ricordante, caratteristica precipua delle maggior parte delle loro opere.

       Anche in questo caso si potrebbero citare non pochi spunti di sicura derivazione proustiana (dal ritrovamento spaziale di Il posto delle fragole alla filastrocca di Otto e mezzo che proietta il protagonista nel proprio tempo infantile), ma ciò che conta, in definitiva, sono forse le parole di rivendicazione felliniana (voglio rappresentare la mia Roma interiore) o “l’abitare il ricordo” di Bergman. 

       Su un piano opposto, vi sono poi i rispecchiamenti autobiografici di Luchino Visconti e François Truffault, diversi e opposti per ragioni soprattutto generazionali: Visconti proietta sulla maggior parte dei suoi film – anche quelli tratti da romanzi di altri scrittori, ad esempio Mann o D’Annunzio – l’ombra di un tempo perduto che coincide con la propria cultura e la propria storia di riferimento; tratteggia i propri personaggi filmici a partire da una sorta di adesione poetico- nostalgica ad alcune figure che si specchiano facilmente dei personaggi della Recherche.

      In Truffaut – che fu tra i primi registi ad essere contattati per una trasposizione del romanzo proustiano– i rispecchiamenti sono di natura diversa. Sintetizzando all’estremo, nei film del regista francese c’è, da un lato l’invenzione di una infanzia declinata secondo una duplice intromissione proustiana: sofferenza/felicità, malattia/nostalgia; dall’altro l’emergenza e l’infelicità sentimentale, dovuta, in larga misura, proprio ad una sorta di mitizzazione estetica delle diverse e variegate presenze femminili della sua opera.

        Per Visconti, il motto potrebbe essere “Charlus c’est moi”, per Truffaut “Marcel c’est moi”. Entrambi gli autori hanno evidentemente un proprio rispecchiamento memoriale, diretto o indiretto. Infine, Alain Resnais, altro autore a cui fu chiesto di filmare la Recherche, è forse colui che ha usato “la manipolazione della memoria” in maniera più creativa, rendendo filmicamente spendibili, al di là di ogni nostalgia o autobiografia, i linguaggi proustiani. Nelle maggior parte delle sue opere, infatti, c’è, infatti, fin dagli esordi, una dominante associativa-percettiva (Hiroshima mon amour) in grado di generalizzare, anche in senso tragico, le “madaleines” proustiane; un’esitazione percettiva (L’anno scorso a Marienbad); una cifra formale e stilistica nostalgico-memoriale (Je t’aime, Je t’aime; Mon oncle d’Amerique). Ma soprattutto la linea poetica che attraversa tutta la sua filmografia è l’indeterminazione percettiva delle storie e dei personaggi, espressa magistralmente sia in Muriel che in Staviski. 

         E siamo al terzo settore, quello più incerto nelle definizioni e nelle ricerche di assonanze dirette e indirette, consapevoli o meno. Si potrebbe partire da La prigioniera di Chantal Ackerman, in cui  alcuni critici intravedono continui richiami-citazioni – l’atmosfera da film “noir”, l’ossessione del possesso – a La donna che visse due volte. Lo stesso nome della protagonista del film di Alfred Hitchcock, Madaleine – una donna che ne evoca un’altra, conosciuta nel passato – viene poi assunto, in altri saggi, come un implicito debito verso la Recherche. Al di là di ogni fondata obiezione sull’eccesso interpretativo, resta il fatto che ritrovare Proust in tante pellicole dagli assunti programmatici così diversi finisce per diventare anche un esercizio da collezionisti, privo spesso di appigli filologici. Non a caso,  nel saggio, già citato, di Roberto Campari, il  tema generale è diviso in capitoli che si possono richiamare o meno alla Recherche, ma che spesso sembrano muoversi in parallelo con gli archetipi memoriali proustiani, anche quando è altamente improbabile che gli autori dei film citati ne sia stati direttamente influenzati.

Esempi illuminanti sono quelli che riguardano  Kenji Mizoguchi (I racconti della luna pallida d’agosto con la sua continuità realtà/immaginazione) o tutto il cinema “nostalgico” fordiano, a partire da un capolavoro sottovalutato, Com’era verde la mia valle (1941), tratto da un romanzo diRichard Llewellyn ambientato nel Galles minerario dei primi anni del Novecento, che contiene una più o meno testuale citazione della Recherche. Ma se si rimane alle indicazioni dello studioso, la lista diventerebbe piuttosto lunga. Volendo, un altro straordinario film di Mizoguchi, L’intendente Sansho, si potrebbe accostare, per certe associazioni auditive/visive, alla scrittura di Proust. E per restare in ambito giapponese, non è forse un film della memoria – e  dolorosissima, nonché intessuta di sfondi storici e familiari – il bellissimo La cerimonia (1971) di Oshima, che, sul piano formale, ricorda gli esiti migliori del cinema  di “manipolazione memoriale” di Alain Resnais? 

O, per trovare altri riscontri, non sono forse proustiani – magari derivati da Bergman o Fellini – Radio Days (1987), Un’altra donna (1988) e Harry a pezzi (1997) di Woody Allen?

           A queste necessarie digressioni, occorre aggiungere che altre culture letterarie hanno, o hanno avuto, i loro cantori della decadenza, della nostalgia e della memoria. Così si potrebbe dire proustiano anche un altro titolo di Orson Welles, L’orgoglio degli Amberson (1942), che pure  non ha né la struttura complessa di Quarto Potere, né, apparentemente, la sua soggettività testimoniale. Eppure la descrizione  di un passaggio d’epoca caratterizzato dalla decadenza (vivisezionata crudelmente da Welles) della prima “aristocrazia” americana, e dalla nascita della borghesia industriale, fa da cornice a due “movimenti” drammaturgici abbastanza significativi: un rapporto sentimentale incompiuto e un attaccamento familiare edipico. 

         Per chiudere con le casualità proustiane, in un film recente e non memorabile, Danny the dog (2005) di Louis Leterrier,  il protagonista, un giovane educato alla violenza da un gangster (come un “cane da guardia”, appunto) ascolta casualmente un motivo suonato al pianoforte. Senza soluzione di continuità, sullo schermo, vengono visualizzate le immagini frammentate di una ragazza che suona le stesse note. Progressivamente lo spettatore riuscirà a collegare questi “flash” al passato nascosto del protagonista.

         Non c’è però da stupirsi per questi accostamenti apparentemente fuori tema. Negli ultimi trent’anni, in particolare nel cinema americano di più largo consumo giovanile, “rêverie”, immaginari al presente (come li avrebbe chiamati Resnais), esitazioni percettive, anticipazioni prolettiche o ipotetiche, si sprecano. 

         Nel cinema europeo, altresì, non si contano  i titoli  incentrati su una cornice memoriale in cui lo svolgimento del racconto è riportato ad un Io narrante intradiegetico;  sono talmente numerosi e non sempre necessari sul piano semantico che si ha quasi nostalgia di un racconto lineare. Di certo questi approdi linguistici non solo non hanno garantito automaticamente un alto livello filmico delle opere, ma gli stessi linguaggi non  possono neanche essere ricondotti alle loro origini letterarie. Sono lontani i tempi in cui un film di Resnais o una sequenza felliniana o bergmaniana facevano pensare, appunto, a Proust o Joyce. Semmai, è proprio da Fellini che si può riprendere l’avvertimento a tener conto che certi  motivi o certe tecniche “sono ormai nell’aria…”, pronte ad essere usati anche da chi ignora l’esistenza della Recherche o dell’Ulisse di Joyce.   

            Se è vero che il bagaglio linguistico del cinema contemporaneo si appoggia fortemente, anche se non sempre consapevolmente, a tutte le sperimentazioni d’autore nate nel secondo dopoguerra, il suo uso “seriale” finisce dunque  per ignorare le mediazioni letterarie più impegnative. Alle sue spalle ha già un vocabolario tecnico che, nel corso di 40 anni, ha metabolizzato ogni tipo di avanguardia ed ogni rapporto con i modelli narrativi più sperimentali.              

Per paradossale che possa essere, l’universalizzazione di alcune caratteristiche del linguaggio proustiano, ma anche la sua filosofia della percezione, sono  state naturalmente introiettate dal medium per eccellenza del Novecento, vero e proprio incrocio delle arti. 

         Però, quarant’anni fa, pochi si accorsero delle non mascherate influenze proustiane, quasi parafrastiche,  in C’era una volta in America. In quel film la Recherche è inizialmente un’eco ironico che fa capolino nella frase di Noodles, il protagonista, tornato a New York dopo 35 anni di clandestinità: “Sono andato a letto presto”.  Successivamente, a parte le esplicite “rêverie”, i motivi vinteuliani (Amapola) riscritti da Ennio Morricone, le molteplicità dei personaggi (Deborah, Max, lo stesso Noodles), l’infantilismo sentimentale del protagonista, ma soprattutto, come scrive ancora Campari, l’incapacità di Noodles di vedere la realtà, offuscata dal sentimento verso l’amico Max e l’amata Deborah, ci riportano ad una lunga serie di archetipi proustiani e non certo di secondo piano. 

          L’esempio estremo di C’era una volta in America – uno dei primi punti di congiunzione, almeno in Europa, tra cinema d’autore e cinema di genere – non impedisce però che in altre pellicole, accostabili alle grandi poetiche analizzate nei capitoli precedenti, si possano ritrovare echi della Recherche, vuoi nel senso di un ritrovamento temporale e memoriale dovuto alle immagini del passato, vuoi ad un più semplice uso dei linguaggi associativi dello scrittore. E naturalmente, le due tracce non sono quasi mai in opposizione.

       Una linea memoriale (chiamiamola bergmaniana-felliniana) fa capolino in Una domenica in campagna di Tavernier, “in cui si sentono molto le affinità con il mondo di Proust”, ma anche in Messaggero d’amore di Losey/Pinter, dal quale il drammaturgo attinge l’idea centrale della sua sceneggiatura proustiana: l’intermittenza ossessiva del ricordo. 

       Infine, nel recentissimo episodio, firmato da Olmi, di Ticket la semplice visione dello spartito di un concerto di Chopin fa scattare una vera e propria serie di “madeleines” che riportano il protagonista, Carlo Delle Piane, ad un episodio dell’infanzia. 

         Empatie poetico-linguistiche, nonché filosofiche, sono invece quelle di Lo specchio e Solaris del già citato Tarkowskji: il primo per l’idea di una “balbuzie” memoriale presente in ogni uomo che non può che essere resa attraverso la sofferenza, la gioia, la difficoltà, ma anche la poesia del ricordo, come una “mise en abyme” che riguarda tutti. Il secondo, pur appartenendo ad un genere apparentemente popolare, la fantascienza, mettendo al centro del film  un oceano tempestoso (l’enorme edificio del ricordo) che sottrae l’inconscio ai protagonisti e lo materializza, moltiplicando la loro “balbuzie memoriale”.

          Invece, empatie citazioniste e d’atmosfera, simili a quelle di Truffaut, sono quelle di Louis Malle: Ascensore per il patibolo, Les Amants, Fuoco Fatuo, ma soprattutto la vera e propria riscrittura sentimentale proustuana, benché ironica, di Soffio al cuore.

          Nel costruire “resurrezioni”, anche testuali, di personaggi e topoi proustiani, un’opera emblematica è invece Tutti i Vermeer di New York  di Jon Jost: restituendo al presente molte ossessioni della Recherche (il rapporto tra arte e immaginario mentale e sentimentale, la malattia) ripropone ambiguamente, anche in senso testuale, l’attualità (o l’inattualità) di Proust suggerita da La prigioniera di Chantal Ackerman. 

         Infine, un film noto per la sua popolarità didascalica, L’amico ritrovato, dedicato all’ossessione del ricordo nefasto dell’Olocausto, ci offre l’opportunità di chiudere con un richiamo ad un uso ampio, ma tutt’altro che pacificato, delle “madeleines”. Infatti, nel film di Schatzberg, sceneggiato da Harold Pinter, l’eco della Recherche proviene in partedal volume di Fred Uhlman, Trilogia del ritorno, a cui il film, che riprende il titolo del primo racconto, Reunion (in italiano L’amico ritrovato), si ispira. Costruito interamente sul personaggio di un ebreo, sopravvissuto ai massacri nazisti, che non ha voluto più tornare alla sua città natale, Stoccarda, il film oscilla continuamente tra la tentazione della pacificazione memoriale (gli anni dell’adolescenza) e la sua negazione, dovuta al ricordo dolorosissimo dell’abbandono della famiglia e della terra natale. 

Ma la centralità del tema, o più propriamente, dello sguardo che interiorizza anche il viaggio di riconciliazione, ci riporta ad un argomento che trascende la letteratura e il cinema, pur essendo parte dell’immaginario collettivo legato alle testimonianze dirette, anche in senso filmico, dell’Olocausto.

         Fino agli anni Sessanta, infatti, queste erano pochissime, celate da una rimozione personale, del tutto comprensibile e agevolata da una meno scusabile rimozione storica. Quando, anche per ragioni commerciali, hanno cominciato ad essere prodotti film d’autore (o anche seriali) sull’argomento, in larga parte gli episodi scabrosi, i massacri, l’oppressione, nonché i simboli visivi di quella realtà (recinti di filo spinato, baracche, corpi denutriti e seminudi, file di prigionieri avviati verso le camere a gas) sono apparsi esattamente come ossessioni che prendevano corpo ogni volta che il sopravvissuto sfiorava con lo sguardo oggetti che potevano evocare quella situazione. 

Emblematico è il film L’uomo del banco dei pegni (1964) di Sidney Lumet, in cui la metropolitana di New York, usata quotidianamente dal protagonista, diventa, senza soluzione di continuità, il vagone che porta a Auschwitz; i recinti di metallo di Harleem quelli del campo di sterminio; il pestaggio di un nero la caccia all’uomo della Gestapo.

        Insomma, anche da questi esempi laceranti, si può ben dimostrare che la spendibilità cinematografica della Recherche e dei suoi linguaggi novecenteschi, va ben oltre ogni confronto cinema/letteratura per essere semplicemente assorbita dall’universalità del cinematografo.

28 aprile 2022

 

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