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Ricordando Marcel Proust a cent’anni dalla sua scomparsa.

La recherche:  non solo parole ma immagini nell’epoca della loro riproducibilità tecnica. Memorie d'oltrecinema. La cineteca di Gianni Olla

Marcel Proust1. Contro la neutralità della tecnica: evocazioni memoriali, “spessori d’arte” e realtà istantanee impressionate dalla pellicola.

Questo saggio è ispirato e in parte ricavato da una mia comunicazione  ad un convegno sulla cultura francese tra i due secoli, ovviamente l’Ottocento e il Novecento. Avevo appena pubblicato un volume sul “cinema proustiano” – già l’accostamento sembra un vero ossimoro, conoscendo l’ostilità della scrittore nei confronti del cinematografo – e mi si chiese, appunto, un intervento che indicasse i rapporti della scrittore con le arti e i mezzi di comunicazione del suo tempo.

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Il silenzio e la vendetta

Esce nelle sale Il muto di Gallura di Matteo Fresi. di Elisabetta Randaccio

''Il muto di Gallura''Proiettato per la prima volta al "Torino Film Festival" (unica opera italiana in concorso), "Il muto di Gallura" di Matteo Fresi è stato presentato nelle sale sarde in anteprima, mentre da giovedì 31 marzo arriverà, distribuito da "Fandango" nelle sale del resto d'Italia.

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\"Tre piani\". Moretti senza il \"morettismo\" ma sempre con il suo fantasma

Una nuova fase per l’ultimo “ex giovane” del cinema italiano. Memorie d\'oltrecinema. La cineteca di Gianni Olla

Visto in tv l’ultimo film di Nanni Moretti, Tre piani, dopo quasi un anno dalla presentazione a Cannes e diversi mesi dalla programmazione nelle sale. Le ragioni dell’incontro tardivo sono  in parte legate alla Pandemia, in parte alle mie condizioni di salute.


Ho potuto usufruire di un vantaggio (che scambierei volentieri con uno stato di salute migliore) rispetto alla critica militante di cui ho fatto parte per oltre 40 anni: accumulare informazioni. Ovvero un bel po’ di recensioni,  quasi tutte negative o almeno perplesse, a parte una bella analisi di Roberto Manassero su Cineforum “on line”, che almeno riesce ad analizzare il film senza “buttarlo via” come un’opera non riuscita.
Ma, per il resto della critica italiana è come se Moretti avesse sbagliato film o forse esaurito la sua carica estetica, trovandosi improvvisamente a corto non già di idee ma di forme filmiche in grado di colpire gli spettatori o semplicemente di coinvolgerli.
Per contro, ho letto con interesse e con passione le dichiarazioni di Eshkol Nevo, scrittore israeliano  di cinquant’anni, allievo di Oz, ed oggi considerato tra i maggiori autori contemporanei.
Per farla breve, Nevo si congratula  con il regista italiano e giudica il film molto bello e, pur con le ovvie libertà del cineasta, sia contenutistiche che formali, persino fedele al romanzo.


 

Nel mondo del cinema, di ieri e di oggi, non capita spesso che uno scrittore di rango faccia i complimenti ad un regista che ha “messo mano” ad un suo libro, senza coinvolgerlo.
E ancora, senza sapere che Moretti l’avrebbe trasposto per il cinema, due anni fa ho letto appunto Tre piani e ho subito pensato che l’avrei “catalogato” mentalmente tra i migliori romanzi  degli ultimi vent’anni. Non ho minimamente pensato ad una possibile trasposizione filmica: la struttura del romanzo mi sembrava così fortemente letteraria da allontanarmi dalle immagini se non quelle che elaboravo io stesso.
Infine, da buon freudiano, Nevo, in una bella intervista, avvertiva i lettori che i tre piani andavano interpretati attraverso tre classiche e conosciutissime definizioni freudiane: l’Es (il primo piano), l’Ego (il secondo), i SuperEgo (il terzo). E anche questa dichiarazione sembrava in grado di scoraggiare i possibili registi, ma evidentemente non Moretti che, in tutta la sua filmografia, ha usato e abusato di Freud, fin dal suo secondo lungometraggio professionale, Sogni d’oro (1981), premiato a Venezia con il leone d’argento e fortemente criticato dopo gli entusiasmi generali del suo esordio con Ecce Bombo (1978).
Infine, come ho già scritto, sono stato sommerso da qualche decina di recensioni della stampa quotidiana o periodica e dalle riviste specializzate, in larga misura negative. E la motivazione critica, oltre al tradimento di Nevo (anche geografico, visto che il film è ambientato a Roma e non in Israele), stava quasi sempre in un’accusa di sciatteria registica.

Sulla prima obiezione – che ha il suo vertice paradossale in un disconoscimento dell’identità di Roma – si potrebbe sorvolare facilmente, visto che la storia del cinema e dei film, compresi i capolavori autentici, è ricchissima di “invenzioni” ambientali e scenografiche del tutto autonome rispetto ai testi letterari di riferimento. Il processo (1961) di Welles, ad esempio, si basa scenograficamente su un “non luogo” che comprende diversi scenari della contemporaneità, dall’immensa sala bancaria che appare come una sorta di universo concentrazionario ai primi computer IBM che occupano una parete intera, dalle periferie urbane degradate ai labirinti quasi astratti nei quali si perde Joseph K.
Ma giusto per alzare la posta, potrei citare uno dei film che trasgredisce totalmente questa pseudo esigenza letterario-ambientale. E si tratta di un capolavoro: La chambre verte (1978) di François Truffaut, ispirato a tre straordinari racconti di Henry James: L’altare dei morti (1895), Gli amici degli amici (1896) e  La bestia nella giungla (1903).
«Con James – scrive il regista – l’inconveniente è che le cose non sono mai dette chiaramente e in un film non ci possiamo permettere vaghezze e incertezze; dobbiamo mettere tutto in chiaro, precisare tutto  e siamo anche obbligati a dilatare, facendo ricordo ad ogni genere di trovate, quelli che chiamo i momenti privilegiati.»

La frase fa parte del carteggio che il regista intrattenne per diversi anni con Jean Gruault, incaricato di preparare una sceneggiatura basata sui tre racconti citati. La sceneggiatura diverrà poi, nel 1978,  La camera verde, uno dei film più controversi e, per certi versi, criptici, dell’autore francese ma soprattutto uno dei suoi maggiori capolavori.
Nonostante la giusta riflessione di Truffaut sulla vaghezza e le incertezze della prosa di James,  caratterizzata  spesso da un discorso indiretto quasi monologante, o da un io narrante soggettivo, nonché da divagazioni e riflessioni che si sovrappongono prepotentemente ai fatti – come accade appunto in altri scrittori otto/novecenteschi – James è stato ed è tuttora uno scrittore molto trasposto dal cinema  e dalla televisione.
La “vaghezza” dei Tre piani di Nevo è invece saldamente “serrata” dentro le definizione freudiane, mentre è paradossalmente concretissimo ciò che accade ai protagonisti.
Nel primo piano stanno due famiglie: padre, madre ed una bambina che avrà avuto dieci anni o poco meno e che, spesso, quando i genitori hanno la sera occupata da impegni di lavoro o di altro genere, comunque sempre importanti, viene parcheggiata dai vicini di casa e soprattutto intrattenuta dall’anziano/vecchio (l’interprete è Paolo Graziosi, scomparso qualche settimana fa) che si diverte un mondo con quella bambina, la quale, in realtà, finisce per essere lei stessa una sorta di “badante” per quel nonno acquisito.

Ma un giorno, usciti di pomeriggio a fare una passeggiata, i due si perdono e sarà la bambina a rifugiarsi in un parco pubblico ben conosciuto dai genitori, dove infatti saranno ritrovati la sera da un padre allarmato che finirà  per aggredire il vecchio, sospettandolo di aver abusato della figlia.
L’ossessione durerà a lungo, anche dopo la morte del vecchio – di cui viene ritenuto responsabile  dalla vedova che lo accusa di avergli usato violenza – e dopo un rapporto adulterino con la nipote della vittima, che lo porterà in tribunale.
Quel lungo frammento di vita è insomma l’ossessione da cui non potrà mai liberarsi, anche quando la figlia, ormai adulta, lo rassicura di non essere mai stata sfiorata dal vecchio.
Il secondo piano è occupato – letterariamente – da un unico appartamento. Una giovane donna aspetta di partorire in solitudine: il marito è spessissimo assente per ragioni di lavoro e lei guarda sconsolata un barbagianni (nel film un corvo) che sembra volerle parlare o almeno sorvegliarla.
 In tutta la sua solitudine, sarà paradossalmente il cognato, odiato dal fratello per ragioni di soldi, a rifugiarsi in casa sua per sfuggire ai creditori e alla polizia, e a fare da padre sostitutivo alla bambina.

Il terzo piano è quello nel quale il mondo interiore (ed esteriore) è, paradossalmente, più statico sul piano drammaturgico e più mosso su quello narrativo. La protagonista è una vedova, il cui marito era un magistrato inflessibile al punto da non aver voluto aiutare il figlio, colpevole di un omicidio stradale aggravato dallo stato alcolico. Il ragazzo, dopo aver scontato la pena in carcere, fa perdere le sue tracce.
La vedova, per uscire dalla sua depressione,  si affida alle vecchie registrazioni delle cassette di una segreteria telefonica. In tal modo cerca di ricostruire la sua vita felice di madre e moglie ma anche l’incidente che ha messo fine a quella famiglia.  Sarà poi un estraneo, che lei ha incaricato di cercare una casa nuova, a portarla misteriosamente in una sorta di “ comune” dove il figlio vive con una sua  compagna e non ha nessuna intenzione di riallacciare alcun rapporto con la madre, pur conoscendo la sua solitudine. Ma, come afferma il misterioso accompagnatore, quel che succederà dopo quella visita non possiamo saperlo.

\"\\"\\\\"\\\\\\\\"Tre\\\\"\\"\"Proprio per “inquadrare” meglio il “terzo piano”, possiamo ritornare alle raccomandazioni di Truffaut sul bisogno di concretezza del racconto cinematografico.
Ed ecco dunque che, nell’episodio più “mosso”, ovvero nel terzo piano, reale e ideale, del film, il marito è un vero personaggio e ha il volto e il carattere, forse anche personale, di Nanni Moretti.
Mentre nel romanzo il padre inflessibile è morto da tempo, dopo aver tagliato i ponti con quel figlio scapestrato e non averlo aiutato neanche come magistrato, nel film, Moretti si ritaglia una piccola parte, in toga da giudice o in borghese, come padre di quel ragazzo di cui viene mostrata, proprio nell’esordio, in parallelo con le altre vicende del film (ovvero con gli altri “piani”), l’impresa delittuosa dovuta all’alcool e ad una vita da scapestrato. La sequenza ha anche un significato allegorico-simbolico: l’auto sfonda il portone di un palazzo, mettendo a nudo, idealmente, ciò che i tre piani celano in maniera naturale, come luoghi privati.

Dopo questo episodio, il giudice si dimostrerà appunto inflessibile e finirà per dichiarare che non vuol più avere a che fare con quel figlio con il quale non è mai riuscito a comunicare.
A questo punto è obbligatorio sottolineare,  a costo di essere banali, che Tre piani è il primo film di Moretti – a parte i documentari e Il Caimano (2006) – in cui il personaggio/attore/regista compare brevemente, giusto per sottolineare un carattere forte e chiuso, segno comunque di debolezza, in sintonia con tutta la sua filmografia a prescindere dalla forma filmica:  vuoi la commedia dei primi titoli, vuoi le incertezze e le tragedie di La Stanza del figlio, Habemus Papam e Mia madre.
Confesso che, a parte la sua filmografia iniziale , diciamo da Io sono un autarchico (1976) a Aprile (1998), magari inserendo in questo breve elenco i primi cortometraggi e persino il bellissimo documentario La cosa (1990) e il recente Santiago Italia (2018), Moretti è stato anche attore e personaggio.
Come critico, proprio a partire da Caro Diario (1992) e soprattutto Aprile (1996), avevo scritto, a suo tempo, che il regista correva il rischio di diventare il “guru” di una società separata. E difatti, proprio in un comizio politico, fuori dal set, aveva inutilmente tentato di provocare la sinistra “perdente” di quegli anni.
Ma i due film citati possono anche essere messi tra parentesi come una sorta di biografia; invece il Moretti attore sembra non già scontrarsi ma sovrapporsi al personaggio del padre nel film La stanza del figlio (2001), come volesse sottolineare le sue paure di genitore, ovviamente cambiando registro drammaturgico. E, nonostante il grande successo (Palma d’oro a Cannes e critica assolutamente a favore, nonché buoni incassi), sono convinto anche oggi che il film sarebbe stato più profondo e più tragico se ad interpretarlo ci fosse stato un altro attore e non un personaggio, già segnato da una identità che si specchia nel Moretti uomo, attore, regista, polemista, politico.

Ancora peggio accade in Habebus Papam (2011), trasparente rivisitazione melvilliana (Bartleby lo scrivano, ovvero colui che “preferirebbe di no”), bellissimo apologo sulle responsabilità e sulle vocazione reali degli esseri umani, ingolfata però dalla gigioneria dell’attore regista che, da psicanalista, cerca di far divertire i cardinali, in attesa che il cardinale Melville (appunto) scelga di essere papa o di non accettare quel ruolo troppo carico di responsabilità.
Infine, rivedendo Mia madre (2015), che fu l’ultima mia recensione da “quotidianista”, vale a dire scritta immediatamente dopo la visione in sala, e che mi piacque molto fino alle lacrime, penso spesso che il doppio racconto dell’agonia della genitrice e del film da girare, sia una trovata quasi banale, tanto più che le sequenze dedicate alle riprese spezzano (volontariamente?) la tensione di quella agonia straziante eppure naturale, legata indissolubilmente alla vita.
Insomma, spesso mi è venuta la tentazione di “tifare” non già per Gofredo Fofi – che non ha mai amato il cinema di Moretti – ma piuttosto per Dino Risi che, una volta, affermò polemicamente che il regista si sarebbe dovuto spostare per farci vedere finalmente il film che aveva firmato.

Ora, tornando a Tre piani, si può dire che il regista/attore/personaggio abbia minimizzato la sua presenza scenica, indispensabile anche per ragioni commerciali (Moretti è pur sempre una figura iconica di primissimo piano), dedicandosi ad una regia neanche facile, visto che molti attori sono volti noti del cinema nazionale (Margherita Buy, Riccardo Scamarcio, Alba Rohrwacher, Adriano Giannini, Elena Lietti, Alessandro Sperduti, Denise Tantucci, Anna Bonaiuto, Paolo Graziosi, Stefano Dionisi) che si portano appresso le loro filmografie quasi sempre seriali anche se di qualità e con una riconoscibilità indiscutibile.
Ma questo non è un difetto: il bisogno di una normalità visiva e caratteriale è ciò che sta dietro le “sofferenze” e le solitudini di Eshkol Nevo che Moretti, seguendo – consapevolmente o meno – l’avvertimento di Truffaut alla concretezza, rende quasi esemplari di una condizione umana nella quale le sofferenze interiori si manifestano solo attraverso degli eventi in qualche modo esplosivi. Nel primo episodio è il sospetto che la bambina sia stata molestata sessualmente dal vicino di casa; nel secondo, la solitudine della madre, abbandonata dal marito sempre in giro per il mondo che finisce per trovare – o per illudersi di aver trovato – un nuovo padre alla figlia.

Infine, nel terzo, un personaggio – quasi misterioso nel romanzo ed invece didascalico nel film, visto che si occupa di assistenza agli extra comunitari – riporta la madre al figlio che lavora in una comune agricola, ha una moglie ed un bambino nato pochi mesi prima ma non vuole affatto riprendere i rapporti con la famiglia, anche dopo la scomparsa dell’odiato padre.
Insomma, è la normalità della vita, la sofferenza interiore al limite della confessione psicoanalitica, ad essere il centro del film. E dunque, questa centralità, non ha necessariamente bisogno né di un’ambientazione israeliana – come molti critici hanno sottolineato, sbagliando – né di una altra ambientazione capace di fare un senso alle vite dei protagonisti.
Il senso, ci dice e ci mostra Moretti, sta semplicemente nella vita quotidiana di ogni individuo. E, paradossalmente, questa volta il regista/autore/attore, pur non essendo visivamente un protagonista, sembra volerci confessare che il suo super-io è costellato di inconsci turbativi e di un ego smisurato e difficilmente superabile.

22 febbraio 2022

 

 

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