Percorso

L'eredità di De Seta nella cultura sarda

Secondo capitolo della nostra inchiesta che vuole fare il punto sul significato e sull'attualità a distanza di 50 anni  del capolavoro di De Seta. Questa volta abbiamo intervistato uomini e donne non solo del cinema ma anche della politica o dell'università.

 
 
Prosegue l’indagine di Cinemecum  relativa al film “Banditi a Orgosolo”, di De Seta uscito 50 anni fa. Abbiamo intervistato altre personalità del mondo del cinema,  della letteratura, della politica e non solo, a cui Antioco Floris, Salvatore Pinna, Arianna Salaris, Maria Elena Tiragallo hanno  rivolte le quattro domande chiave:  E’ importante  e perché “Banditi a Orgosolo”? Qual è la sua  rilevanza nel contesto sardo e in quello cinematografico? , Si può parlare ancora oggi di attualità di “Banditi a Orgosolo”? E’ presente e in che modo nel cinema sardo l’eredità di De Seta? Ecco cosa ci hanno risposto Francesca Barracciu, Pietro Clemente, Michele Mossa, Gianfranco Cabiddu, Antonello Carboni, Bachisio Bandinu, Giuseppe Casu. Se volete, unitevi al dibattito.
 
Bachisio Bandinu
 Bachisio Bandinu, scrittore
“Banditi ad Orgosolo” è un film importantissimo, coraggioso. La sua trama si può  riassumere in poche righe, è  una storia minimalista e semplicissima  ma lo sviluppo dell'opera è  interessantissimo, intenso ed originale.
Mai banale, mai noioso. La storia narrata nel film è elementare: un uomo in fuga.  Si tratta di  una storia archetipica, universale ed eterna.  Nulla di più. Eppure a dispetto di questa semplicità di partenza e della sintetica povertà  di eventi  De Seta costruisce un film dal valore indiscutibilmente etico, oltre che antropologico. Gli eventi, ciò che accade nel film, sono ridotti all'essenziale, ancestrali, antichissimi. Sono eventi che possono essere accaduti oggi come migliaia di anni fa. La struttura narrativa è autentica, così come lo è la sua drammaticità.  Attraverso una grammatica visiva asciutta e rigorosa il film diventa pura visione: una visione che riesce a rendere  il senso dell'invisibile. Ed è proprio l'invisibilità a caratterizzare il più profondo nucleo identitario della Sardegna. Invisibilità e silenzio sono elementi profondi e antichi  che costruiscono il centro della cultura dell'isola. Pur essendo difficilissimo riuscire a rendere cinematograficamente il senso del silenzio e dell'ascolto della natura, De Seta riesce a costruire questo silenzio nella sua sostanza più arcana. La natura si ascolta nel silenzio, non si può dire, enunciare o descrivere con la parola. La parola interrompe la poetica del silenzio, frantuma l'incanto dell'ascolto. La parola banalizza. Per fare un esempio: mio padre di fronte allo spettacolo dell'alba non avrebbe mai detto "che alba meravigliosa!". Sarebbe rimasto in silenzio, senza proferire parola. Si sarebbe limitato ad ascoltare l'alba, a viverla nel silenzio. Un silenzio senza interruzione.  Non è un caso che nel film "Banditi ad Orgosolo"  i dialoghi siano così scarni e limitati all'essenziale. De Seta ha capito che l' identità del sardo è rintracciabile nell'ellissi del linguaggio.
 
Ogni dialogo dunque viene intenzionalmente ridotto al minimo: chi parla non lo fa con frasi dirette e didascaliche ma ellittiche, indirette, oppure col silenzio stesso, attraverso il non verbale e tramite il comportamento e i movimenti del personaggio. Questa qualità del silenzio è tipica di tutte le culture pastorali arcaiche. Può esistere in Sardegna così come in Tibet. Un altro modo di De Seta per riuscire ad esprimere il silenzio  è evidente nella rappresentazione del paesaggio: il paesaggio è chiuso, senza scorci od aperture al grazioso, privo di concessioni estetizzanti, privo di tutto ciò che può alludere alla bellezza tipica del panorama pittoresco. La Sardegna è sempre stata un set meraviglioso, certi scorci sono decisamente incantevoli e difficilmente chi ha girato un film in Sardegna ha evitato il bel panorama, lo scenario naturale nel suo lato più retorico e stucchevole.  De Seta rinuncia completamente a questa tentazione estetizzante, rinuncia al visibile e all'esibito. Il suo montaggio, la sua fotografia e il suo ritmo lento riescono a costruire un contesto strettamente connesso al testo.  La retorica dell'immagine e' completamente bandita, l'immagine è aspra. Lo stile del montaggio e' secco, asciutto, disincantato ed imparziale. Questa rappresentazione primitiva del mondo pastorale sardo ha una forza di verità che scaturisce dall'immagine stessa, un immagine nuda, inclemente, accentuata da un sapiente uso del bianco e nero. Una narrazione dunque che si costruisce quasi da se', che emerge senza didascalia: le cose parlano da sole, semplicemente accadendo. La sua lirica è sobria, scaturisce dalla perfetta aderenza di testo e contesto. La storia e il destino dei personaggi è raccontata dalle immagini. Paesaggio e destino sono intimamente impregnati della stessa sostanza.  Lo sguardo di De Seta è distante, rispettoso, in ascolto, appunto.
Difficile rintracciare l' eredità  di De Seta nei film sardi contemporanei. Tutto è  diverso, tutto e' cambiato. Come si fa' a raccontare un mondo che non c' è  più  senza averne fatto esperienza? Gli autori, i registi sardi vivono in una Sardegna completamente mutata, frenetica e chiassosa.  Anche i sardi non sono più gli stessi. Il silenzio non esiste più, il visibile ha sostituito  ed invaso l'invisibile, l'estetizzante ha soppresso l'estetica. Il paesaggio è diventato pittoresco, grazioso. La Sardegna di oggi è complessa, articolata, completamente trasformata. Difficile ritrovare questo senso arcaico e primitivo che raccontava De Seta. Non vi è colpa in questo. Semplicemente: questa realtà  non c'è più. Restano solo dei frammenti difficili da ricomporre in un unità di visione coerente.
 
Francesca BarrucciuFrancesca Barracciu, consigliere regionale Pd
Ci sono opere che si imprimono fortemente nell’immaginario degli spettatori, alcune riescono persino a piegare l’immaginario collettivo e riplasmarlo secondo un nuovo messaggio o una nuova poetica. Quando ciò avviene, l’effetto è portentoso e l’arte ha pienamente adempiuto alla sua ragione d’essere.
Credo che sia accaduto questo con l’opera di De Seta, che ormai fa ormai parte del nostro patrimonio comune. Mosso dalla ricerca delle verità, De Seta ha contribuito a scalzare l’idea, al tempo radicata, di una Sardegna – di cui Orgosolo è stata il simbolo – stereotipata, terra di banditi senza regole né cuore. Ne ha mostrato non solo il lato umano, ma anche quello sociale, antropologico e dell’ingiustizia. Il film parla più di quanto non facciano i suoi personaggi. De Seta fa parlare i silenzi, fa parlare la povertà – e non solo i poveri – fa parlare uno stato di innocenza che non è contemplato e anzi si scontra con lo stato di diritto. Fa parlare, forse per la prima volta in modo così manifesto, non gli attori ma i pastori, la popolazione di Orgosolo, inserendosi nel migliore neorealismo italiano. L’ operazione di demistificazione fatta da De Seta a partire dai dati di un’indagine che ebbe vasta risonanza e che lo incuriosì a tal punto da recarsi in Barbagia e verificare di persona, trovando e poi ritraendo una realtà ben diversa dal racconto comunemente diffuso sul banditismo, è quanto mai attuale. Anche oggi la mistificazione che di fatto viene fatta (lo vediamo in maniera esemplare in questi giorni in alcune pagine a pagamento sui quotidiani, volute da Cappellacci) intorno a una terra e alla sua popolazione, è addirittura allarmante.
 
''Banditi a Orgosolo''La modernità invade le campagne, il Supramonte e il paese così come le città. La tecnologia modifica le abitudini, le modalità comunicative e relazionali. I pastori sardi non sono più isolati e tanto meno fuori dal più ampio contesto produttivo e sociale. Vero è che quando hanno portato la loro protesta a Roma hanno ricevuto lo stesso trattamento che le forze di polizia riservavano ai presunti banditi orgolesi negli anni ‘50: sono stati attesi a Civitavecchia e fermati con una violenza ingiustificata: hanno trovato la repressione, lo stato di guerriglia. Segno questo che semmai il governo berlusconiano, come avvenuto durante il G8 a Genova, continua a confondere ordine con repressione. Ma la vera attualità sta nell’esigenza di demistificare, come fece De Seta, le narrazioni congegnate e utilizzate anche oggi, con diversi mezzi e con diversi scopi, da alcuni poteri forti, purtroppo legati al governo regionale para-berlusconiano, che raccontano e diffondo l’immagine di una Sardegna inesistente per generare le distorsioni necessarie ai loro fini. Franco Cagnetta, lo studioso la cui inchiesta ispirò De Seta, scrisse che dalla denuncia e dallo scandalo che seguirono alla pubblicazione della sua indagine veniva fuori la vera struttura dello stato moderno diretto dalla borghesia. In Parlamento Nenni affermò: l’«Inchiesta su Orgosolo è la più terrificante che sia comparsa negli ultimi sessant’anni». Se oggi ci illudiamo che quella struttura non ci condizioni più è perché l’abbiamo per la gran parte ingerita e indossata. Ce la portiamo dentro e fuori. Con tutto ciò che ne consegue. Il cinema sardo conosce un gran bel momento di fermento d’idee, di poetiche, di sperimentazione.
 
L’abbiamo percepito chiaramente nella scorsa legislatura, quando abbiamo approvato la legge sul cinema voluta, prima di tutti, dalla compianta ed infaticabile Giovanna Cerina, grazie alla quale mi sono avvicinata a quel mondo per la prima volta da legislatrice. I nostri registi sono registi del mondo, hanno studiato fuori, si sono confrontati anche con realtà diverse, hanno per riferimento i grandi maestri del cinema. De Seta è di certo uno di questi, è stato un innovatore sensibile, accurato ed attento. Tutti gli sono debitori per aver frantumato un immaginario di stereotipi e per aver saputo, attraverso il suo sguardo neorealista e da grande documentarista (non dimentichiamo che prima di “Banditi a Orgosolo” aveva girato due documentari sulla Barbagia e sulla civiltà pastorale), restituire un’immagine antropologicamente vera della Sardegna. Direi che tutti i film del filone “banditesco” degli autori sardi, a cominciare da “Sonetàula” di Mereu che riprende esplicitamente atmosfere, luoghi e volti del film di De Seta; da “Desamistade” di Cabiddu ai film di Piero Livi e di Piero Sanna, fino allo stesso “Arcipelaghi” di Columbu, che ha sempre la vendetta come tema, si riportano alla sua lezione e contribuiscono ad affrancare e recuperare la cultura sarda dalla cultura folcloristica per restituirle dignità universale rafforzandone così l’ identità.

Pietro ClementePietro Clemente, antropologo Università Firenze
E’  stato importantissimo De Seta, perché  ha contribuito a costruire il senso dell'impegno sociale non generico della mia generazione, e mio evidentemente, verso problemi e ceti concreti. Lo ho sempre connesso con “Sonetaula” di Giuseppe Fiori, e con “Baroni in laguna”, come letteratura sulla realtà, legata a un nuovo realismo figlio del neorealismo della cultura antifascista. In questo senso il me 19 enne o 22 enne cinefilo che vide il film, non si basava per conoscere i pastori sardi sui suoi occhi, ma sulla visione di un regista non sardo. Sarei andato ad Orgosolo per la prima volta nel 1967, in modo organizzato, tra Psiup e attività del teatro. Già allora nell'accoglienza anche tra militanti c'era a Orgoslo un chè  di 'turistico', come se si volesse approfittare della scena e del mito per presentarsi. Poi condivisi il movimento muralista, l'occupazione dei pascoli di Pratobello. La mia accoglienza appassionata per il film era legata anche al suo rigore, al mondo quasi francescano del suo bianco/nero, a una idea di stile che connettevo con quella di lotta. Ora che sto in un dipartimento con colleghi che insegnano cinema ho avuto modo di vedere molti altri film di De Seta, e di cogliervi una intuitiva vicinanza con l'antropologia filmica.
Nel contesto sardo, con “Sonetaula”, fu occasione di risveglio di una generazione dai miti consumisti. E anche dai miti dell'identità sarda. Negli anni '60 ho amato molto il cinema, sono stato due anni studente a Milano e ho fatto indigestione di Antonioni e di Bergman, ma già a fine anni '50 a Cagliari vedevo film in grande quantità e stilavo un quaderno di ingenue critiche. De Seta lo ho visto  tra i 19 e i 22 anni, non ricordo bene, ma certo lo ho amato e capito più vicino ai 22 quando fui anche vicepresidente del CUC a Cagliari e De Seta stava nelle nostre politiche di modernizzazione dello sguardo, e di incontro con la società. Molti grandi film non sono entrati mai nei circuiti commerciali, non so “Banditi a Orgosolo”, ma nella generazione dei giovani aspiranti intellettuali come me era un cult (ovviamente allora questa parola non si usava, e nemmeno mitico). Era la generazione del '68 e dei circoli.  Stilisticamente credo che il film di De Seta  sia ancora un esempio.
 
''Banditi a Orgosolo''Occorrerebbe applicarlo ai pastori rumeni che aiutano quelli sardi in Toscana, o ai migranti, ma la guida dello sguardo problematico e sociale, dell'asciutto rigore visivo che produce poetiche sociali potrebbe ancora funzionare. Ad esempio “Padre padrone” dei fratelli Taviani mi fece venire nostalgia di De Seta per quanto trovai impacciata la ricostruzione del mondo pastorale. E i Taviani sono registi che trovo spesso convincenti. Anche un film bellissimo come “Terraferma” di Crialese, mantiene un rapporto con De Seta, che ha girato vari film documentari sui pescatori in Sicilia, anche se Crialese ha più bisogno di comunicazione collettiva, di mito, di forza esplicita di sentimenti per essere vicino al pubblico.
Sui “Banditi ad Orgosolo” della Sardegna reale tuttavia ho di recente raccolto delle critiche forti che trovo giuste, esse vedono nel film la creazione di uno stereotipo pauperista nel mondo della pastorizia e del banditismo, mentre  si ritiene che il caso raccontato sia un nucleo possibile ma poco reale ad Orgosolo. In effetti nel libro autobiografico che sto pubblicando che si intitola “Addio a Orgosolo” di T. Mele , si sostiene che il banditismo orgolese è sempre stato legato al mondo dei poteri e delle ricchezze locali, più che a quello della miseria e della fame di pascoli. E si sostiene che Orgosolo è sempre stato un paese ricco. Queste riflessioni mi hanno fatto anche tornare indietro sui pensieri anni '60, a riflettere sulla doppia vita di un film, che può essere sociologicamente sbagliato, anzi col senno di poi mistificatore, e contenere un messaggio di poetica sociale così forte da formare dei giovani critici e impegnati. Ma anche questa è attualità, occasione di riflessione sul presente, magari anche sulle nuove forme della lotte dei pastori-imprenditori. Quanto ad una possibile eredità di De Seta nel cinema sardo penso di non saper rispondere a questa domanda, forse conosco poco il cinema sardo, molto meglio la letteratura, in effetti la mia conoscenza si limita a Cabiddu e a Mereu, sono due autori che mi piacciono molto, diversi tra loro, di grande rigore e grande poesia, non so se De Seta li abbia influenzati. Certo anche loro hanno una poetica della vita sociale, del lavoro, dei bambini, un senso della differenza culturale. Ma non provo a misurare parentele stilistiche, non è proprio nelle mie capacità.

Michele MossaMichele Mossa, etnomusicologo, documentarista
Penso che probabilmente ancora oggi quando chiunque pensi al cinema in Sardegna o riguardante la Sardegna faccia immediatamente riferimento a qualche fotogramma del film di De Seta. Del resto questo è testimoniato dalla copertina di alcune delle più importanti pubblicazioni anche recenti sull'argomento.  Il film è un'eccezione - che non potrebbe essere stata più felice - a conferma della regola: un Capolavoro nato controcorrente e senza sèguito in virtù dell'assioma della non spendibilità del tema "Sardegna" da parte dell'industria cinematografica. Di qui forse il paradosso di avere un archetipo di indubbio valore (sancito oltretutto dal premio al Festival di Venezia) ma in assoluta mancanza di concorrenza. La società fotografata da “Banditi a Orgosolo” è cambiata, anche se molto del cinema più recente sulla Sardegna ha faticato a mettersi al passo con il cambiamento per aderire a stereotipi dettati da un immaginario posticcio ancorché radicato sulla Sardegna. Ma questo non è certo colpa di De Seta, che si rapportò con la realtà che avrebbe raccontato con rigore e sensibilità. Trovo che la sensibilità e il talento di tipo "etnografico"che traspare dal suo cinema come anche il fare recitare persone appartenenti allo stesso ambiente che si è voluto narrare siano stati spunti importanti per i cineasti sardi.

Giuseppe CasuGiuseppe Casu, fisico, documentarista
“Banditi a Orgosolo” è importante perché è bello. E' ben girato, ben interpretato, ben montato, dà la voglia di fare film. Io lo ricordo sempre come il primo film sardo che ho visto in vita mia. In realtà mi devo sempre correggere perché non è un "film sardo". Però lo è. Mi piace infatti pensare che De Seta si è immerso in quella montagna, si è impregnato dello stile dei pastori e della loro maniera di vivere, così poco etichettabile. E solo dopo aver sentito un po' "suoi" quegli uomini, quel modo di fare, quelle montagne, ha potuto raccontare quella storia, prendendo quel distacco e mettendoci un coraggio e un amore che solo chi possiede un cuore raffinato può dare. Certo, quegli uomini, quelle montagne, quel paese li ha illuminati, zoomati, carrellati, avvicinati, messi in luce e controluce col suo linguaggio e la sua tecnica. Ma questa è forma. Ricordo "Banditi a Orgosolo" pure come una via di mezzo tra una finzione e un documentario, ma formalmente è una finzione. Penso però che, al di là del modo in cui è stato realizzato, il risultato finale rappresenti un raffinato esempio di come i confini tra documentario e finzione siano piacevolmente impalpabili. Attualità... c'è una riflessione senza tempo sugli effetti di una vita isolata. Di fronte alla sfortuna di trovarsi testimone di un atto criminoso, Michele vede chiaro davanti ai suoi occhi che per lui finirà male.
 
''Banditi a Orgosolo''E così infatti va: non può consigliarsi con nessuno, deve decidere in fretta, anzi non decide, subendo la situazione e tuffandosi in un flusso di scelte e azioni senza speranza. I consigli dell'amico di Orgosolo sono tardivi e lontani. Associazione di idee... Werner Herzog, nel suo solitario viaggio a piedi e nel gelo da Monaco a Parigi per "salvare" la sua amica Lotte, perso  nei suoi deliri si chiede: "Fa bene la solitudine? Sì, fa bene. Solo che dà prospettive drammatiche”.  Certo, associo il film ad alcune prove di Salvatore Mereu e di Gianfranco Cabiddu, ma non sono uno storico del cinema... posso dire che girare un film del genere rimane un anelito per me: seguire un personaggio e farlo vivere. Guardando il film di De Seta si ha la sensazione che star dietro al protagonista, trasmettere i tratti fondamentali della sua condizione sociale, trovare ampi spazi per la contemplazione dei gesti dell'uomo (momenti di vero documentario...) come fare il formaggio o far spostare velocemente un gregge di pecore, sembra davvero che sia un'impresa semplice. Sembra facile, ma è solo un'impressione.

Gianfranco CabidduGianfranco Cabiddu, regista
Il film di De Seta squarcia un velo ed è uno spartiacque nella cinematografia sarda, italiana, mondiale. Per lo stile e per ambientazione. Di colpo un mondo si dischiude nella sua vera, semplice, terribile realtà. Quello che prima di allora si era visto sullo schermo della Sardegna viene come spazzato via dall'irrompere della vita vera. Una visione alta di un ambiente che nella sua scarna verità è metafora universale. Non è un caso che in questa essenza, un cineasta totale come Scorsese abbia colto il ponte tra la verità del documentario e la costruzione del cinema nella sua essenza più vera. Alla base di questa rivelazione c'è un coraggio di risposta etica che viene dalla domanda principale che ogni cineasta dovrebbe avere nel cuore: cosa vuol dire questo film. Arrivato in Sardegna per i sopralluoghi per un film scritto a tavolino (con una collaborazione subito interrotta con il grande sardo Franco Solinas), ispirato e mutuato dalle carte delle tante inchieste sulla società del malessere, denso probabilmente di teorie e analisi, De Seta incontra la gente vera. La esplora con due documentari magistrali: scarni, semplici senza commento e senza parole e vede l'uomo e il suo ambiente. Questi documentari sono essenziali per capire la genesi di “Banditi”, le sue inquadrature il suo stile. Il coraggio allora è quello di ribaltare tutto: abbandonare la sceneggiatura e abbandonarsi al flusso di vita vera, catturandone l'essenza umana, il peso del paesaggio naturale nel definire gli atti e la vita di quella umanità con il cinema. Per fare questo si sbarazza della macchina cinema: riduce la troupe e con l'essenziale bagaglio di un documentarista si permette di stare dietro alla storia fino in cima alle montagne. Non sono più i costumi della festa indossati per le sfilate e ricercati dallo sguardo straniero, ma gli abiti di tutti i giorni, spesso laceri, incontrati in sentieri aspri della montagna o nei vicoli bui del paese, che irrompono nello schermo con la forza che dai greci ad oggi cattura l'immaginario: la sincerità della vita vera. La forza cinematografica è questa, una forza primordiale che da Flaerthy arriva a noi. In quei primi anni sessanta, all'alba di un cambiamento totale dell'isola, era ancora possibile in Sardegna giocare quella carta di essenza integra, dopo sarà per forza di cose solo finzione, ricostruzione e film in costume. Una lezione di stile riconducibile ad un esperienza seria di un maestro è sempre attuale e viva.
 
''Banditi a Orgosolo''La tradizione è qualcosa che ci sta alle spalle ma costituisce il nostro bagaglio per affrontare il futuro. Il nostro dovere e di raccoglierne il testimone, allontanandocene o reinventandola. Ma non se ne può prescindere: bisogna conoscerla bene nella sua essenza. Tutto è cambiato in quel mondo che racconta De Seta, ma le dinamiche che muovono l'uomo sono orme profonde, tracce che a saperle leggere portano lontano. L'attualità di questo film sta ancora oggi nell'approccio alla materia cinema. Se si ha la fortuna di ascoltare De Seta dalle sue parole e dalla sua passione emerge un senso etico di questo mestiere, una idea di cinema che è prima di tutto e caparbiamente incontro con l'uomo. Una visione viva di fare cinema che è modernissima ed essenziale in un mondo quotidiano sempre più immerso nella finzione. E prezioso conoscerlo, amarlo, perché  la sua poetica si erge come un  confine che se attraversato non concede compromesso. La sua è una sfida alta, ma paradossalmente alla portata di tutti (un cinema povero essenziale dove il grande effetto speciale è l'uomo) ma non è facile da cogliere oggi in tempi in cui la vita, e il cinema, rispondono a qualcosa che nasce già morto, "confezionato" ed esposto tra le luci del supermercato. E viene un po’ di nostalgia per quel tempo in cui il cinema italiano, produttivamente, sapeva dare spazio e cittadinanza alla suprema finzione di Fellini e Visconti, all'introspezione audace e ruvida di Antonioni, alla dolcezza e umanità di De Sica, a Petri, Rosi, Germi, alle risate di Totò e ai pastori-banditi di Orgosolo. Credo che sia imprescindibile. Come un faro a cui avvicinarsi o allontanarsi, utile a disegnare qualsiasi rotta e a misurare qualsiasi distanza. La prima sensazione da sardo è di gratitudine, un sentirsi a casa ma anche, e finalmente, parte del mondo grande e terribile. Stilisticamente è un esempio di serietà e rigore nel trattare l'inquadratura e il ritmo, l'essenza scarnificata della recitazione. Per quanto mi riguarda è presente molto nel concetto di "paesaggio con figure": le storie e le reazioni degli uomini si legano all'ambiente in maniera imprescindibile, unica, l'attenzione fisica nel descrivere il rapporto con l'ambiente (p.es. il camminare in questo paesaggio) forgiano e condizionano la storia, azioni e reazioni umane dei personaggi. Ancora il lavoro sugli attori qui ha una sua "carnalità" e una essenza: non attori, gente della strada che incarnano se stessi, la fisicità di un pastore che "fa" il pastore è l'essenza massima di verità. In questo tipo di cinema questa recitazione scarna essenziale fatta non di sentimenti ma di azioni usuali (al personaggio attore) non è possibile in presenza di un testo scritto a monte, si scrive giorno per giorno sul corpo del pastore/attore.
 
La verità, chimera di ogni cineasta, è colta perché tutto è vero, non verosimile. In quella storia e in quel tempo questo è possibile, come oggi è possibile p. es. in “Gomorra”: un'alchimia magica tra la necessità di raccontare una storia, che nel momento in cui si inizia a raccontare è già finzione, e la necessità del documentarista di cogliere la vita da testimone oggettivo di un divenire. Ritmicamente e musicalmente poi il silenzio e la sospensione, l'attesa, l'azione raccontano una partitura del divenire che è "musica concreta" contiene una visione moderna del suono nel cinema.  Il film "respira", importa poco che il parlato sia doppiato in italiano (si tratta solo di parole che sono dialogo scarno e quotidiano, essenziale) i personaggi parlano veramente con il corpo, con gli occhi con il silenzio, la musica  si sente  dentro le inquadrature, nel loro ritmo, a tratti molto veloce o sospeso, nelle attese e nel parossismo. Questa lezione di cinema essenziale è lì e di questo miracolo dobbiamo essere grati al suo autore.

Antonello CarboniAntonello Carboni, fotografo, documentarista
Parlare di “Banditi a Orgosolo” non è facile, uno studioso certamente può farlo con cura, sapienza e grazia. A me, che è richiesto un sincero contributo, dico che intanto non può non farmi pensare anche a "Un giorno in Barbagia" e "Pastori di Orgosolo". Certamente De Seta lo vivo come un gigante, e penso che appunto nel nostro contesto isolano lo sia ancora e incontrastato. Sicuramente perché era un intellettuale, perché amava Jung, e perché si considerava un artigiano. Aveva lo stesso sentimento di Carpitella, romantico, con la forte percezione che qualcosa si stava perdendo e che di lì a poco sarebbe scomparsa del tutto. Grandi. Viene pure in mente D.H. Lawrence... Quanto alla seconda domanda direi che  sono un po' incerto, propendo più per il no, nel senso che De Seta ha narrato nel giusto momento la giusta storia, e oggi non sarebbe più attuale, se non rivestita di totale folklore. Bisognerebbe fare i conti con la modernità, con il juke-box e con il flipper, non con i tempi "omerici", per dirla con De Seta. Forse oggi sarebbe una scelta anacronistica se tratta dalla realtà, così come l'aveva immaginata De Seta, rimaneggiando la sceneggiatura più e più volte assieme agli stessi attori sociali locali. Sicuramente un insegnamento lo ha lasciato: il suo modus operandi, a livello filmico e profilmico, con uno stile di regia poetica notevole, mutuata dai precedenti documentari.
 
Veniamo all'ultima domanda. Presente in che modo... è difficile rispondere, nel senso che probabilmente non è presente per niente, e se lo è, è presente male.
Pare quasi che la cinematografia d'autore isolana abbia preso gusto a narrare il "vecchio", ciò che non è più. Non so se nelle passate produzioni i film di De Seta siano state un po' un faro, un punto fermo di riferimento oltre il quale però non si sia riusciti ad andare, come se ci fossimo ancorati ad una visione tolemaica. Mi sembra che gli autori nostrani stiano facendo grandi e lodevoli sforzi, ma che non si sia ancora compiuta la rivoluzione copernicana, ecco. Eppure qualcosa si muove.
 
12 ottobre 2011
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