Percorso

Crialese, o l'elogio della lentezza

Passionale, estroverso, geniale: è Emanuele Crialese, il quarantaduenne autore del pluripremiato “Nuovomondo” e dell’indimenticabile “Respiro”. Il regista è stato ospite a Cagliari del Marina Cafè Noir, il festival organizzato dall’associazione Chourmo, quest’anno intitolato “Eroi, migranti e Pirati”. Lo abbiamo incontrato in piazzetta Savoia, immerso in un'atmosfera colorata e frenetica. di Arianna Salaris

 Crialese, riallacciandoci al tema della rassegna di Marina Cafè Noir, lei  si sente più eroe, migrante o pirata?
Sicuramente un pirata. E’ così che mi chiamano, perché non obbedisco a nessuno, non mi arrendo mai e, soprattutto, non accetto compromessi. Un esempio? Per girare “Nuovomondo” ho avuto bisogno di ben quattro anni di lavorazione. Oggigiorno si pensa alla ‘velocità’ come ad un valore, facendone, erroneamente, sinonimo di ‘efficienza’; questo vale anche nel mondo del cinema: se vuoi girare un film sembra normale che si debba fare tutto di corsa, nel minor tempo possibile.

Io non ci sto: se vuoi puntare sulla qualità hai bisogno del giusto tempo per fare bene le cose e così ho fatto. Certo, porsi dei precisi limiti di tempo è importante, altrimenti non si concluderebbe mai un bel niente, ma se per colpa di questa stramaledetta fretta devi lavorare in modo trasandato, non mi sta più bene.
La smania della fretta, conduce, inevitabilmente, alla sciatteria. Basti pensare che ormai non solo nessuno si prende la briga di provare gli attori, ma capita pure che qualcuno cerchi di importi un’attrice senza sapere neanche se va bene per la parte. Questa logica non mi sta bene: non si può arrivare sul set senza aver prima spiegato con calma agli attori che cosa ci si aspetta da loro ed aver instaurato un reale rapporto artistico. Io pretendo il mese di prova con gli attori, previsto dal contratto, altrimenti faccio altro nella vita. E non accetto raccomandati, Grazie alla mia t
estardaggine, infatti, il film è davvero come lo avevo pensato,  è qualcosa di mio, fatto a modo mio, e questo mi gratifica enormemente.

 Come si riesce a sopravvivere e ad avere successo, puntando solo sulla qualità?
Non ne ho la più pallida idea. Forse ci vuole fortuna, non saprei. Io ci ho rimesso soldi, salute e serenità: per quattro anni, in nome della qualità, mi sono stressato da morire, finendo per dormire quattro ore per notte; per di più, per riuscire a girare il finale, ho dovuto sborsare alla produzione circa metà del mio compenso, ben 90.000 euro. Ora sono in crisi. Se è questo il prezzo da pagare preferisco non fare più film: non ci voglio rimettere la salute. Ormai se sento nominare la parola “produttore”  inizio a sentirmi male.  Chi sono questi signori, questi ‘produttori’? Imprenditori che
ragionano con la logica del mercato, pensano solo a fare soldi, e non rischiano mai sulla cultura. La situazione è grigia: se  oggi vuoi fare il regista ti devi sorbire una serie di cene e cenette, devi sorridere e fare il compiacente, sperando che ‘il produttore ti noti’. Ma perché dobbiamo dare i soldi a questi signori? Per di più, nella gestione dei fondi per il cinema, c’è sempre lo zampino dei politici. Anche questo è un aspetto che non digerisco: le decisioni  sui fondi per il cinema dovrebbero essere affidate a un regista, a chi capisce veramente il cinema. Invece non solo questi politici non sanno fare il loro mestiere, ma almeno si occupassero solo di politica! Invece, benché privi di cultura, mettono il naso dappertutto, e pretendono di gestire i fondi destinati al cinema attraverso commissioni  giudicatrici di impreparati ed incompetenti. Sono svilito. Amareggiato.

 Se non fosse così amareggiato a cosa lavorerebbe in futuro?
Avrei il desiderio di girare un piccolo film in Brasile, a budget ridotto. Ma senza produttori, per carità. L’ideale sarebbe di fare come i registi Inarritu, Del Toro e Cuaron, che si producono e sostengono a vicenda. E’ una buona idea. Perché non fare la stessa cosa anche in Italia? Certo, noi registi non siamo nati per fare i ragionieri, ma meglio fare qualche errore da soli piuttosto che farci truffare da altri.


Lei ha girato diversi cortometraggi. Che valore attribuisce al genere dei corti?

Ritengo che siano una vera e propria palestra per i registi: si apprende l’importanza della  sintesi, si impara a raccontare una storia attraverso una selezione ridotta di immagini e scene pregnanti. Queste acquisizioni si rivelano molto utili per il regista anche quando poi affronta il lungometraggio; io, ad esempio, nel mio lavoro non faccio mille prove e mille inquadrature, cioè non riprendo  la stessa scena in tutti i modi possibili così poi da scegliere in fase di montaggio quella ottimale. Sono convinto che l'inquadratura giusta sia una sola e il regista debba essere in grado di vederla subito. Magari poi, in fase di montaggio, mi pento perché ho poche alternative. Ma preferisco lavorare così, perché sono costretto ad affinare talento ed intuito. Preferisco arrivare sul set con le idee molto chiare; oltre alla sceneggiatura preparo anche lo story board. Poi, ovviamente sul set ci sono molte variabili e faccio molti cambiamenti, specialmente  sulla base delle  possibilità che mi offrono gli attori nella immediatezza.


Dove ha imparato a fare questo mestiere?
Ho frequentato per tre anni la scuola di cinema di New York.  L’America mi ha accolto. In Italia, invece, avevo provato ad entrare nella scuola di cinematografia di Roma, ma i posti per i registi erano già stati decisi attraverso criteri non proprio " meritocratici". Mi proposero di fare la domanda per entrare  nella scuola come allievo montatore. Ma io volevo fare il regista! In America ho potuto finalmente studiare la regia sotto tutti i profili. L’argomento che ho approfondito maggiormente nei miei studi, riguarda la "direzione degli attori", una parte spesso trascurata ma importantissima nel mio lavoro.

Quali sono  i suoi maestri?
Sono diversi: il primo è Charlie Chaplin perché incentrava i suoi film sulle immagini e non sulle parole, tanto che quando finì l'epoca del muto, ebbe parecchia difficoltà a esprimere pienamente il suo talento. Anche per me l'immagine è più importante delle parole.
Poi Fellini e Cassavetes… In effetti ci sono anche tanti altri artisti ai quali mi ispiro: alcuni sono maestri sotto un profilo particolare, ognuno ha la propria eccellenza in un determinato settore.
Tra i colleghi italiani, invece, apprezzo, in particolare Sorrentino, Amelio e Bechis.

Nonostante le migliori premesse il suo film non è riuscito ad arrivare agli Oscar. Come ha vissuto questa esclusione?
Benissimo. Quando ho visto “Le vite degli altri” non ho potuto che condividere questa scelta. Tanto di cappello. È un bellissimo film e meritava pienamente di arrivare e di essere premiato agli Oscar.

Però si è consolato con il Ciak d’Oro: “Nuovomondo” è stato premiato come “miglior film” dai maggiori critici italiani. Che effetto le ha fatto?
Le parole dei critici sul mio film sono state una carezza, mi hanno fatto fare pace con la mia terra. In genere i giornalisti tendono o a travisare il pensiero di chi risponde alle loro domande, e i critici a demolire eccessivamente ciò che un autore fa. Ma è troppo facile criticare. Più difficile è costruire. Bisognerebbe valorizzare di più il “fare” anziché cercare lo scoop a tutti i costi mettendo in bocca alle persone parole che non sono mai state pronunciate dall’intervistato, oppure cercando di distruggere verbalmente l’opera di un autore. Non serve a niente continuare così.
Tuttavia quando sui giornali ho letto tante belle parole spese per il mio film, ho pensato che quando un’opera ha veramente una sua forza poetica, una sua bellezza e profondità, arriva a toccare  e far risuonare le emozioni delle persone. I giornalisti e i critici hanno scritto parole sul mio film dettate da emozioni che hanno provato di persona. E, finalmente, ho sentito che tutta la mia fatica è servita a qualcosa.

Di recente il sito Cinemecum ha dato vita ad un dibattito, prendendo spunto  dal caso di Wenders, il grande regista tedesco chiamato a promuovere la Sicilia attraverso un film-documentario. Cosa pensa di questa iniziativa?
Sono felice che la Sicilia abbia commissionato a Wenders un film: è un grande regista e forse anche la Sardegna avrebbe dovuto cogliere l'occasione. Occhi differenti e distaccati colgono aspetti che i registi legati al territorio non potrebbero vedere. Infatti, sarebbe noiossimo se la Sicilia apparisse solo nei film di Tornatore o dei registi siciliani. L'importante è fare. La preoccupazione sorge quando il territorio non suscita alcun interesse da parte di nessuno. Dunque l'alternativa fra promuovere i registi sardi o affidarsi a registi stranieri è un falso problema perché pensare che la Sardegna nel cinema debba essere filmata solo da registi sardi è una forma di provincialismo. Il cinema non esisterebbe se questa fosse la regola. Grandi registi, ma anche grandi scrittori, hanno ritratto paesi differenti dai propri, talvolta creando dei capolavori. Quando ho saputo che Soru aveva intenzione di chiamare Wenders, gli ho inviato una lettera chiedendogli di prendermi in considerazione. Ma non ho avuto risposta; ho pensato avesse già fatto altre scelte. Forse un film di Wenders avrebbe più visibilità del mio. Purtroppo non conosco le opere dei registi sardi, ho visto soltanto “Ballo a tre passi” ma non mi ha fatto impazzire. Invece mi incuriosisce "Jimmy della collina": appena posso vado a vederlo.

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