Percorso

Cinema e crimini

"Detenuto in attesa di giudizio" di Nanni Loy

Viene quindi arrestato ed inizia la terribile avventura giudiziaria e carceraria nella quale, oltre alle sopraffazioni, se non vere e proprie violenze fisiche e psicologiche, l’aspetto più angoscioso e devastante è quello dell’incertezza del proprio destino e della mancanza di ogni informazione sulle ragioni della detenzione e sui tempi di definizione della carcerazione.
Solo dopo un lungo periodo, l’uomo riceve la visita di un giudice, che gli spiega il motivo delle accuse: un uomo era morto nel crollo di un ponte, il cui progetto era stato firmato da SORDI, che era stato quindi considerato responsabile e ricercato per tutto quel tempo.
A quel punto, il geometra è in grado di ricostruire i fatti e di dimostrare di essere del tutto estraneo alla costruzione del ponte e quindi al suo crollo e di non avere nessuna responsabilità per la morte dell’uomo.
Alla fine, quindi, chiarita la sua posizione, SORDI sarà scarcerato ma nulla sarà più come prima….
L’impegno e la passione civile di LOY riuscirono in un vero miracolo: sotto le (riuscitissime) spoglie di un’opera cinematografica, si muovevano anche le anime del documentario e della denuncia, con una fusione perfetta tra i diversi livelli di scrittura e di analisi del film.
Dell’opera cinematografica, detto dell’interpretazione di SORDI, basta ricordare l’accuratezza delle locations (carceri sordide e diroccate, con l’aria del lager più che dell’istituto carcerario) e la capacità di cogliere, con l’occhio del regista, i passaggi più drammatici, sino alla tragedia:  per tutte, merita una citazione la scena in cui il compagno di cella di SORDI, portato in Tribunale per un’udienza, nella quale riponeva ragionevoli speranze per tornare in libertà, al suo rientro in carcere, furioso per essere stato invece condannato ad una lunga pena ( per il  disinteresse del suo legale), si scaglia, a calci e bestemmie, contro la statua della Madonna nell’ingresso del carcere, facendola cadere dal piedistallo e mandandola in frantumi.
La scena, difficilissima da concepire e realizzare in quegli anni così…democristiani, aveva però una tale dignità artistica e di valore narrativo che, nonostante il plateale e volgare attacco ad uno dei simboli della Chiesa Cattolica, accusata senza mezzi termini di non rivolgere il suo sguardo verso l’umanità disperata del carcere, non ebbe nessun problema di censura: per cui LOY potè rappresentare la disperazione umana dal singolare punto di vista della divinità ( non a caso, la camera inquadra la statua che cade non dal basso, secondo la soggettiva del detenuto, ma dall’alto, secondo quella della stessa statua).
Per quanto riguarda il contenuto documentaristico, il film ha una forte carica descrittiva e fotografa l’Italia di quegli anni, cogliendo il livello di arretratezza organizzativa e culturale delle istituzioni, tra l’altro quelle di maggior delicatezza, vista la materia trattata, amministrazione della Giustizia ed amministrazione penitenziaria.
Conoscendo il regista, fu quasi una versione seria, se non tragica, delle sue candid camera, una rappresentazione in vivo della società italiana, senza nessuna mediazione ideologica o politica che potesse edulcorare e nascondere la realtà di un paese ancora lontano da accettabili standard di civiltà giuridica ( eppure, la Costituzione era in vigore da oltre 20 anni…).
Erano passati parecchi anni dal monito andreottiano secondo cui “i panni sporchi si lavano in famiglia”, detto per diffidare il cinema del neo- realismo dal rappresentare in modo troppo …realistico la società italiana: per fortuna, almeno al cinema era possibile avere il quadro della situazione che quindi entrava nella dimensione della consapevolezza di massa.
Già il titolo aveva questo valore didascalico e nel contempo didattico: utilizzando la formula del codice di procedura allora vigente, LOY ottenne, immediatamente, l’effetto (desiderato) di evidenziare il paradosso della detenzione ( che dovrebbe seguire alla condanna) in attesa del giudizio e quindi preventiva; una impostazione repressiva che anche grazie al film di LOY venne sottoposta a vaglio critico, sino alle modifiche, certamente migliorative e garantiste, dei nostri anni.
Non ultimo, il valore di film-denuncia: prendendo posizione sullo stato disastroso della giustizia di quegli anni, non solo LOY documentava quanto accadeva sotto gli occhi di tutti ma addirittura, con lo sguardo profetico dei grandi, anticipava la realtà drammatica che, pochi anni dopo, sarebbe esplosa con il caso TORTORA, forse il più famoso dei detenuti in attesa di giudizio ( oltre che il più famoso degli errori giudiziari, esattamente come il geometra di SORDI).
Il primo pensiero nel rivedere questo film è oggi non potrebbe accadere; poi ti accorgi che è una riflessione superficiale, e, per chi lavora in questo mondo della giustizia, consolatoria, perché speri solo che non accada più.
Ma, in realtà, quella storia e quella tragedia non hanno tempo: sono entrambe figlie della stessa angoscia del  Processo di KAFKA, ovvero il terrore del meccanismo divoratore delle persone, indifferente alla loro umanità ed auto-referenziale nella sua logica: anche SORDI non conosce l’accusa e non riesce quindi a trovare la ragione della spirale che lo sta risucchiando.
Ho detto prima che le leggi attuali sono cambiate e lo sforzo di civiltà e di garantismo consente di guardare con ottimismo a queste situazioni: ma non è questa la ragione per cui ancora oggi il film di LOY è fresco ed attuale e quindi inquietante.
Ci spiega infatti che i meccanismi disumanizzanti non sono solamente figli delle leggi che li generano: sono soprattutto causati dagli uomini che li realizzano.
E la disumanità, come il sonno della ragione, genera mostri. 
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