Il caso di Wanda Jakubowska

Nella cinematografia della Shoah costituisce un periodo particolare quello che va dal secondo dopoguerra sino al periodo immediatamente successivo al processo contro il criminale nazista Adolf Eichmann (1945-1964).
Nel secondo dopoguerra la cinematografia, in particolare quella europea, brilla per un suo, quasi totale, silenzio nella produzione di pellicole inerenti la Shoah o l' universo concentrazionario in genere. Silenzio che può a prima vista risultare ancora più “voluto” da parte di registi e produttori cinematografici se si pensa che, in paesi come l'Italia, dalla fine degli anni '40 a quella degli anni '50, il cinema vede una produzione esorbitante di pellicole sul trascorso periodo nazista, fascista, sulla resistenza e sul dopoguerra “amaro”, vissuto dal popolo italiano ed europeo. Tra tutte queste pellicole nessuna, a eccezione de “L’ebreo errante” di Alessandrini (per molti versi interpretabile come film antisemita), tratta il tema della Shoah. Viene si, in alcune di esse, trattato seppure di striscio il tema dell' universo concentrazionario nazista (è il caso de “Il bandito” di Alberto Lattuada), ma non si parla nè di ebrei nè dello sterminio eugenetico di un intero popolo da parte dei nazisti, in quegli anni programmato. La situazione non è diversa nella cinematografia del resto d' Europa, dove sono pochissime le pellicole in cui si cita l’ universo concentrazionario nazista come “Retour a la vie” di Clouzot o “Die morder sind unter uns” di Wolfgang Staudte , e in quasi nessuna si parla di Shoah e di ebrei.
Nel secondo dopoguerra la cinematografia, in particolare quella europea, brilla per un suo, quasi totale, silenzio nella produzione di pellicole inerenti la Shoah o l' universo concentrazionario in genere. Silenzio che può a prima vista risultare ancora più “voluto” da parte di registi e produttori cinematografici se si pensa che, in paesi come l'Italia, dalla fine degli anni '40 a quella degli anni '50, il cinema vede una produzione esorbitante di pellicole sul trascorso periodo nazista, fascista, sulla resistenza e sul dopoguerra “amaro”, vissuto dal popolo italiano ed europeo. Tra tutte queste pellicole nessuna, a eccezione de “L’ebreo errante” di Alessandrini (per molti versi interpretabile come film antisemita), tratta il tema della Shoah. Viene si, in alcune di esse, trattato seppure di striscio il tema dell' universo concentrazionario nazista (è il caso de “Il bandito” di Alberto Lattuada), ma non si parla nè di ebrei nè dello sterminio eugenetico di un intero popolo da parte dei nazisti, in quegli anni programmato. La situazione non è diversa nella cinematografia del resto d' Europa, dove sono pochissime le pellicole in cui si cita l’ universo concentrazionario nazista come “Retour a la vie” di Clouzot o “Die morder sind unter uns” di Wolfgang Staudte , e in quasi nessuna si parla di Shoah e di ebrei.


I primi due film della trilogia sono quelli che andrò a analizzare. “Ostatni etap” è in assoluto il primo film, realizzato in Polonia sulla Shoah e i campi nazisti, nonché una delle primissime pellicole apparse in Europa sul tema a nemmeno un anno dalla liberazione dal Nazismo.
Si tratta di un vero capolavoro, girato interamente nel campo di Auschwitz appena liberato, ma soprattutto, la cosa più particolare è costituita dal fatto che la regista ha utilizzato, come comparse, nella parte delle deportate e dei deportati, dei superstiti appena liberati, con dei risultati perfetti. Questi ex deportati, comparse volontarie nel film della Jakubowska, sono ancora spaventati nei loro sguardi e nei loro movimenti, alla vista delle uniformi delle SS o dei Kapò del campo, e di conseguenza ogni scena ambientata nel lager è realistica.
Il film è diviso in due parti: la prima mostra il funzionamento di Birkenau, la seconda narra della resistenza delle prigioniere politiche, mostrando, tra l'altro nella parte finale, la vicenda realmente accaduta della partigiana polacco-belga di origini ebree Mala Zimetbau, fuggita dal lager nel 1944, ripresa dalle SS, condannata a morte per impiccagione ed autrice di un episodio eclatante rimasto nella storia del lager: riuscì a tagliarsi le vene prima di salire nel patibolo e schiaffeggiò una SS prima di venire uccisa pronunciando ai suoi aguzzini la frase “Morirete tutti da assassini”.

Paradossalmente, anni dopo, quando nel 1964 la Jakubowska dirigerà il secondo capitolo di questa trilogia, “Koniec Naszego swiata”, si assisterà a un totale cambiamento di tendenza e al dare una visione più corretta della storia del lager di Auschwitz Birkenau allo spettatore. Il film narra questa volta col flash-back una storia al maschile (al contrario del precedente film che invece presentava una storia al femminile) la storia di Henryk, polacco che in visita nel lager di Auschwitz con due amici, rievoca la sua vicenda di deportato politico nel lager. Da notare come in questo film, diversamente dal precedente, i deportati politici polacchi subiscano delle percosse fisiche e delle torture e del lavoro forzato, ma non alcuna selezione iniziale. Nel film in questione, la selezione iniziale viene subita solo dai deportati ebrei (come realmente accadeva nel campo!). Non solo!

Purtroppo, si deve sottolineare che mentre in paesi come la Germania o la Francia il pubblico può assistere in questi anni alla proiezione de "L’ultima tappa" in Italia queste opere sono ancora oggi sconosciute in quanto rimasti censurati.